File Under:
cow-punk girls di
Domenico Grio
(23/05/2017)
Sarah
Shook è stata inserita da Rolling Stone Magazine tra i primi dieci nuovi artisti
country "you need to know", così come è finita in vetta alla classifica
delle donne "who are kicking country music's ass", stilata dalla rivista
online Buzzfeed. Con simili credenziali è inevitabile nutrire aspettative piuttosto
elevate per questo disco d'esordio (se si eccettua il precedente Seven, uscito
nel 2013 senza la collaborazione dei Disarmers), il che impone un approccio critico
molto attento, da un lato scevro da facili condizionamenti e dall'altro privo
di inopportune pregiudiziali. Nel nostro caso però, sin dal primissimo ascolto,
ogni sorta di aprioristica diffidenza smette di esistere, perché di nodi da sciogliere
se ne presentano ben pochi. Sidelong è un album di livello, un'opera
prima certamente sorprendente e questa giovane musicista della Carolina del Nord
(originaria di Rochester - NY) dimostra di avere molto talento e di meritare tutte
le attenzioni che le sono state riservate.
Intendiamoci, di strada da
fare a nostro parere ce n'è ancora molta, ma quello che emerge in superficie è
già in grado di fornire risposte più che convincenti. Le coordinate appaiono nitide:
il country classico, quello "vero", sottratto alla deriva popular ed il punk o,
comunque, quella raw music, intrisa di polvere, di roventi sunset e di duri scenari
suburbani. Il suono è elettrico, tosto e graffiante, dominato da una sezione ritmica
risoluta e potente, lei è molto credibile nel ruolo, ha quella forza espressiva
che il genere richiede e usa la musica come strumento operativo del suo impegno
civile, come mezzo per stimolare le menti di quelli che definisce non-redneck
(i contadini ottusi e retrogradi del sud degli States). Molto più ruvida e "stradaiola"
di Lydia Loveless, Sarah sintetizza l'attitudine punk di Annette Zilinskas (in
veste di vocalist dei Blood on the Saddle) o di Exene Cervenka, il mood roots-rock
di Lucinda Williams e l'approccio intellettuale di Michelle Shocked, con qualche
rimando anche al sound di frontiera.
I brani funzionano alla grande, sia
perché sono magistralmente strutturati, sia perchè Eric Peterson (chitarra elettrica
e produzione esecutiva) e Ian Schreier (ingegnere del suono) hanno saputo coglierne
l'essenza e tirare fuori il meglio della band. Impossibile individuare gli episodi
più significativi e questo la dice lunga sul valore complessivo del lavoro. Tutti
i pezzi risultano essenziali al progetto, da quelli meno ortodossi, dall'indole
più dura e dalle tinte più scure (No Name,
Sidelong, Misery Without Company, Nothin'
Feels Right But Doin' Wrong e Make it up Mama), a quelli relativamente
più fedeli alla tradizione (Keep the Home Fires Burnin', The Nail
e Solitary Confinement), alle ballate notturne
(Dwight Yoakam). Un discorso a sé merita invece Heal
me (dal quale è stato tratto il primo video ufficiale del disco), in
quanto è forse l'unico passaggio in cui i conti non tornano appieno. Il brano
è certamente all'altezza, c'è anche una fascinosa virata verso le atmosfere desertiche,
alla Thin White Rope per capirci, ma c'è qualche trovata ad effetto che, a nostro
avviso, francamente non ha molto senso, se non quello di caratterizzare eccessivamente
l'interpretazione e magari cercare facili consensi. Nulla di grave, ci sta e non
cambia di una virgola quanto di buono già sottolineato su un album che seduce
da subito e che per di più cresce in maniera esponenziale ascolto dopo ascolto.
Una come Sarah Shook nel panorama attuale è quanto di meglio potesse
accadere, è l'indispensabile contraltare al continuo fiorire di falsi cowboy con
le chitarre in pugno ed è davvero un bel colpo assestato nel didietro dell'attuale
establishment della country music, giusto per parafrasare con garbo Buzzfeed.
A tutti gli appassionati: stay tuned!