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Oklahoma girl di
Marco Restelli (11/04/2016)
È
verosimile che la maggior parte dei nostri assidui lettori non abbia mai sentito
parlare di Carter Sampson. Eppure, nel centro degli States, ai confini
col Texas, questa ragazza si è già guadagnata il lusinghiero nomignolo di "Queen
of Oklahoma", prendendo spunto dal titolo di un suo pezzo di qualche anno fa,
nonché dal fatto che da anni risiede proprio ad Oklahoma City. La musica, in effetti,
sembra avercela nel sangue, se è vero che scrive canzoni da quando aveva 15 anni
e che nel suo albero genealogico figura addirittura un certo Roy Orbison. Non
è poi così difficile, in fondo, accorgersi del suo talento scorrendo le dieci
tracce del suo quarto album, intitolato Wilder Side. Lo stile prevalentemente
Americana è a supporto di storie e di personaggi che esaltano lo spirito libero
o cercano l'evasione nel viaggio, nella strada e nella partenza. La voce sensuale,
direi cristallina, e le melodie piuttosto radiofoniche (nel senso nobile del termine),
normalmente rischierebbero di confondersi con le tante proposte commerciali che
vengono da Nashville e dintorni, se non fosse che la Sampson ha fatto sì che il
tutto suoni assolutamente autentico e credibile, a partire dalla produzione, per
fortuna sempre dosata ed essenziale.
La title track, midtempo piazzata
emblematicamente in apertura, funge un po' da manifesto del mood dolce amaro dell'album,
sia in termini strettamente musicali, sia per quanto riguarda i temi di fondo.
La donzella dichiara senza mezzi termini al suo ex - di cui non ha notizie da
tempo - di avere scoperto il proprio lato selvaggio, nonché di avere in fondo
un cuore solitario e un'anima zingara, che ama far tardi la notte guidando e ascoltando
le canzoni di James Taylor alla radio. Il brano è interpretato in maniera leggermente
malinconica e questo lascia sottintendere che si tratti più di un adattamento
alla dolorosa separazione, che non di una scelta predeterminata. Gioiellino. Non
sono certo da meno le successive Highway Rider
- lenta ballata nella quale i concetti precedenti vengono ulteriormente ribaditi,
in maniera ancora più esplicita ("Home is where the heart is… ain't that a shame,
'cause i can't seem to keep my heart in the same place…I'll take the wind I'll
take the sky….C'est la vie til'I die") - e Run Away,
cesellata dallo scintillante dobro di Travis Linville.
Lo sfondo più elettrico,
con tanto di assolo, di Holy Mother rappresenta
una piacevole variante alla base acustica che domina il resto dell'album, là dove
invece Medicine River è a mio avviso il brano che per cadenza e impostazione
più di tutti si avvicina alle radici del country tradizionale ed è un omaggio
della cantante al Medicine Park, situato fra le montagne di Wichita (Texas). I
luoghi, i posti visitati e le mete raggiunte finiscono col fare da sfondo perfetto
per queste storie che sembrano raccontarci molto anche del carattere della cantautrice
e del suo stile di vita. Al riguardo la Sampson raggiunge il culmine del riferimento
autobiografico nel finale, con la splendida See The Devil
Run che descrive una viscerale passione per il colorato e movimentato
coro della cattedrale di Memphis, visto da una parte come arma potente contro
il male e il maligno, ma nello stesso tempo come un vero e proprio spettacolo,
da non doversi perdere per niente al mondo. In fondo Wilder side è un disco incantevole
che sinteticamente definirei "dall'anima inquieta", ma non tanto da rattristare,
o peggio ancora da annoiare. Una piacevolissima sorpresa, Miss Sampson.