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Americana per anime semplici di
Yuri Susanna (13/02/2015)
Abbiamo
parlato bene, anche se con moderazione (non siamo mica gente facile all'entusiasmo
e ai superlativi, noi), un paio di annetti fa, di quello che era allora il sesto
disco del barbuto Drew Holcomb da Nashville, Good
Light, sottolineandone la fertile capacità comunicativa e le buone
intenzioni, senza tacere di una certa tendenza a coltivare un artigianato minore,
privo di slanci geniali ma capace di offrire prodotti solidi e funzionali - per
amanti della tradizione e della sostanza. Potremmo sottoscrivere parola per parola
quanto scritto allora anche per il settimo disco della serie, il taumaturgico
(nelle intenzioni del titolo) Medicine, e chiudere qua, tanti saluti
e alla prossima. Perché in effetti il buon Holcomb dà l'idea di trovarsi perfettamente
a suo agio nel liquido amniotico delle sue canzoni intrise di redenzione - portatrici
sane di un fervore quasi gospel, a tratti - e nella scrittura quadrata di un folk/country
rock derivativo e onesto nel maneggiare le proprie radici.
Quali siano
queste radici è assai facile da individuare: al terzo brano del disco i giochi
sono fatti e i riferimenti più o meno tutti scoperti e messi sul tavolo: Petty,
Fogerty, Springsteen e gli Allman del periodo country là in alto, come stelle
polari; qua giù, un po' più vicino, Counting Crows, Ryan Adams, Ray Lamontagne,
e Amos Lee, come putativi compagni di strada contemporanei. Da quel perimetro
non si esce quasi mai anche nelle restanti nove canzoni e il massimo di eccentricità
lo si incontra nel riff distorto che apre Sisters Brothers
e la conduce verso strade battute da loschi figuri come i Black Keys, e nel chorus
muscolare di Shine Like Lightning. Ma sono
solo brevi momenti di (apparente) smarrimento: il passo preferito dei Neighbors
è quello misurato e regolare, senza scarti o eccessive accelerazioni, di ballate
dall'anima acustica come American Beauty, o frizzanti midtempo come Here
We Go e la fischiettante I've Got You.
Un passo da bravi ragazzi di campagna, cresciuti a e robuste dosi di ottimismo
e sani principi e con un'idea populista, ecumenica e ben poco sporca e selvaggia
del rock & roll.
In fondo questo convincimento, questa positività (la
joie de vivre, diciamo pure), che emergono ben chiare anche nei momenti introspettivi
di Medicine, è il punto di forza della musica di Holcomb, che - consapevolmente
o no, poco importa - va a colmare in qualche maniera un vuoto, a soddisfare un
bisogno. Sono dischi come Medicine, infatti, a dimostrare che si può ancora praticare
un songwriting di derivazione folk e dal forte appeal pop, senza doverci per forza
appiccicare il prefisso "indie" davanti. Non c'è orma di approccio alternativo,
qua: deviazioni o contaminazioni strambe sono bandite. Tanto meno si trovano tracce
di narcisismo o l'intenzione di veicolare messaggi intellettualistici o "far poesia".
Il massimo di profondità cui puntano le liriche di Medicine è "We're gonna try
to make it better if it's the last thing we do" (da The
Last Thing We Do, che è anche il rock più spedito e travolgente del
disco). E visto che, come ha cantato qualcuno, alla fine di una dura giornata
di lavoro bisogna pur trovare qualcosa in cui credere, per una volta possiamo
ridimensionare le nostre pretese e farcela andare bene così.