Questa non è l’ennesima ragazza con la chitarra, che parte al mondo sperando che
qualcuno si accorga di lei. Qui ci sono talento, personalità, gavetta e idee chiare
in quantità sufficienti affinché Lydia Loveless ci faccia chiosare che
questo è il disco che stavamo aspettando: dieci canzoni di roots rock urgente,
elettrico, di grande impatto, che riconcilia con un panorama femminile nordamericano
che non sta vivendo il suo momento di maggior splendore. Somewhere Else,
con la sua intensità e il suo pathos a livelli di guardia, arriva come uno schiaffone
all’ascoltatore sonnacchioso di inizio anno e immalinconito perché Tift si è ammorbidita,
Kathleen si è innamorata e Brandi si è involuta. Lydia invece c’è e crede nel
miracolo del rock, ancora una volta unico mezzo di espressione possibile per una
ventenne incasinata, introversa e a disagio nei rapporti interpersonali.
E
così le speranze seminate a piene mani da Indestructible
Machine (2011) danno ora frutti copiosi, il suono si è fatto più maturo
e controllato pur senza rinunciare all’attitudine ribalda, quasi punk della Loveless
e i risultati sono entusiasmanti. Il manifesto del salto di qualità verso una
classicità roots è la clamorosa Wine Lips,
ritornello perfetto, incedere stradaiolo e sezione ritmica goduriosa (il basso
è del marito Ben Lamb, ai tamburi Nick German): già sin d’ora pronosticabile tra
i brani top di quest’anno. Desideri non saziati o non saziabili, inquietudine,
rimpianti sono materia incandescente da cui forgiare la sofferente Chris
Isaak (dopo Steve Earle nel disco precedente, un altro cantautore omaggiato
da un titolo), la nostalgica e soulful Hurts So Bad, la dolce rabbia di
Verlaine shot Rimbaud (un amore eccessivo
e sfrenato come quello dei due poeti maudit), la rutilante apertura di Really
Wanna See you Again (chitarre che sferragliano, energia da vendere
e un ritornello che flirta con il pop-punk). Il giro di chitarra (ottimo Todd
May) e gli squarci elettrici che pervadono la fremente To Love Somebody
sembrano quelli di una rocker consumata e non di una agli albori della carriera,
ma ormai lo stupore ha già lasciato spazio alla meritata celebrazione.
E
quanto canta con tutta la grinta che ha in corpo “Cause I know the sooner I go
to sleep/The sooner I can dream/ Well maybe if I get lucky tonight, you’ll be
there waitin’, ready for me“, struggendosi nella magnifica Head,
altro zenit dell’album e country rock esaltante sulla scia della miglior Kathleen
Edwards, ci si trova disarmati dinanzi a cotanta veemente fragilità. Se non si
perderà per strada - e avvisaglie in tal senso proprio non ce ne sono - il pantheon
delle rockeuses che più amiamo, presieduto ad honorem dalla signora Lucinda, dovrà
aggiungere un posto per lei. Intanto c’è Somewhere Else ed è già tanta roba. Divoratevelo.