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Steve
Earle Steve
Earle non è certo uno che le manda a dire, e così succede che questo lavoro
sia un po' la summa della sua personale ricerca per tentare di capire come siano
state nutrite le radici dell'odio islamico, quelle che hanno fatto esplodere in
tutta la sua selvaggia violenza l'11 settembre. Già a partire dall'attacco di
Ashes to ashes, primo brano di Jerusalem, si capisce che
aria tira. Rock'n'roll asciutto, quasi desertico, con un'attenzione particolare
a quello che c'è da tirar fuori. Non che in questo senso la musica sia meramente
funzionale al messaggio ma, indubbiamente, la polemica di Earle con il modello
americano attuale trova in questo lavoro un respiro particolare. Ne esce un disco
claustrofobico, compresso, diviso fra smarrimento e disperata voglia di interrogarsi,
un'accusa che è ancor prima recupero della memoria. Così l'acida John Walker's
Blues non è solo critica feroce ma piuttosto un particolarissimo tentativo
di dare fiato anche alle ragioni degli altri come già era successo con Billy Austin
su The Hard Way, raccontando una storia che ha per protagonista un ragazzo americano
che cerca a denti stretti qualcosa in cui credere senza trovarlo in MTV. Stessa
storia per Amerika v. 6.0: chitarre distorte ed una ritmica opprimente,
voce sporca, corrosa, trascinata su un testo che sembra fatto apposta per sputare
via il veleno o per Conspiracy Theory, con delle liriche che sono letteralmente
un pugno in pancia. Con tutto ciò Jerusalem è un disco che scava, che penetra
in profondità con uno Steve Earle che ha il coraggio di mettere a nudo il male
di vivere della società contemporanea, e che lo fa con un fiume di parole masticate
a fatica ed una strumentazione scarna, per non dire destrutturata, che va isolando
i suoni per rendere ancora più aguzza la rabbia della propria confessione. Va
osservato che, anche in un lavoro così cupo, c'è spazio per qualche respiro e,
in questo senso, The kind e Go Amanda sono delle ariose ballate
elettroacustiche particolarmente suggestive anche se questa non è certo una novità
dato che questo tipo di composizioni da sempre viene particolarmente bene a Steve
Earle. La chiusa del disco è affidata all'armonica fulminante e alle note di Jerusalem
che sembra portare un certo sapore di conciliazione, ed è in effetti una ballata
che custodisce, svelandolo lentamente, un messaggio di speranza. Concludendo,
Steve Earle in Jerusalem annaspa fra le macerie di un sogno, di un modello di
vita, che certo non è solo tipicamente americano ma che appartiene all'intero
mondo occidentale, alla ricerca del significato perduto di parole come memoria,
pace, principi, storia, patria. Se è vero che la sua opera è stata facilmente
liquidata da certa critica musicale, ma era prevedibile, come anti-americana,
forse nel suo tentativo di prendere coscienza e di capire i sanguinosi errori
e la tragica amnesia di un popolo Steve Earle è riuscito a comporre un superbo
mosaico musicale che assomiglia sempre più, ascolto dopo ascolto, ad un grande
atto d'amore nei confronti del proprio paese. |