Figlio
del Texas profondo, Brian Wright ha preferito andare a respirare la salsedine
del Pacifico con la sua band - i Waco Tragedies: niente più che uno dei milioni
di gruppi che ogni sera calpestano i palchi dei club di Los Angeles. Hanno anche
registrato un paio di dischi (autoprodotti, ovvio, e finiti nel nulla): file under
alt.country, se vi interessa. Ma nella testa di Brian turbinano troppe idee per
lasciarle appassire nel recinto limitato della sua band. Così, si è chiuso in
uno studio di registrazione a Laurel Canyon e, in solitudine quasi totale, un
po' alla volta ha provato a dare forma a quelle idee. Suonando, sperimentando,
sovraincidendo. Qualcuno, passato a trovarlo, ha lasciato il suo contributo, principalmente
ai cori: Joe Purdy, Sally Jae, Torrance 'Stonewall' Jackson... Per il resto,
Wright fa tutto da solo. Non solo lo sfogo di un'ossessione musicale, ma anche
un tentativo di esorcizzare una vita incasinata e senza direzione. Ne sarebbe
potuto uscire un pasticcio autoreferenziale, ma le radici southern hanno salvato
Brian dalla deriva, lo hanno tenuto ancorato a canzoni dalla forma concreta, tenacemente
fruibile.
Nell'insieme House on Fire è una bella prova di
songwriting, ma anche qualcosa di più. Soffermandosi a studiare i particolari
si colgono le sfaccettature del lavoro compiuto da Wright sui suoni, la varietà
delle soluzioni. Non c'è una canzone uguale all'altra: il disco parte infilando
in sequenza l'esperimento pop psichedelico dall'anima country Striking
Matches, la ballata in 3/4 in stile Elvis Costello Blind
April, il duetto da texas troubadour con Jamie Drake Live
Again, l'atmosfera gotica dell'intensa Accordion,
attraversata dal riverbero delle chitarre e dalla vibrazione minacciosa delle
percussioni. E non siamo neanche a un terzo del disco. Prima della fine, c'è tempo
ancora per un country-gospel (Mesothelioma),
un blues (Rich Man's Blues), un r&b old style
(Still Got You), un folk-soul à la Ry Cooder
(If You Stay) e un pop/rock "tompettyano"
(Had Enough). Ah, e anche un raga-hillbilly
(The Good Dr., e no, non c'è venuta una definizione
migliore…). E poi c'è Maria Sugarcane: racconto
di due fratelli innamorati della stessa donna, violenza e rimpianti, che sembra
uscito da Nebraska di Springsteen, con una melodia che ricorda il John Prine di
Donald & Lydia.
Sono 14 canzoni ma, per una volta, non sembrano troppe.
Il rischio semmai era che tutto questo rimanesse oscuro, nascosto: il disco era
già in giro nel 2010, autofinanziato e venduto ai concerti. Per fortuna alla Sugar
Hill hanno le orecchie aperte e, anche se ormai i cd è più facile venderli come
sottobicchieri che come supporti fonografici, ne hanno acquisito i diritti e si
sono accollati l'onere di ristamparlo e dargli una distribuzione adeguata. Con
anche una nuova copertina - quella originale rappresentava un fiammifero acceso
su sfondo nero -, ispirata alla pubblicità vintage di un medicinale. Già, perché
questo disco in qualche modo ha funzionato da antibiotico, nella vita di Brian:
in questo anno tante cose si sono aggiustate, ora è anche padre di un bimbo. E,
non ultimo, ha finalmente la possibilità di promuovere il suo lavoro come si deve.
"Il miglior disco che ancora non possedete", recita il claim promozionale. Non
vi resta che ascoltarlo. (Yuri Susanna)