Jeff
Tweedy narra di un raccolto generoso, decine di canzoni che hanno alimentato la
sua fervida ispirazione negli ultimi due anni, tra le quali scegliere il distillato
migliore, quello che desse forma a The Whole Love. Il primo disco
a sancire la totale indipendenza del gruppo (non che prima ci fossero stati segnali
di un minimo cedimento, se non esclusivamente alla propria arte) per la neonata
etichetta personale dBpm è quindi un nuovo punto di partenza, sintesi del passato
per gettare uno sguardo verso l'età della saggezza dei Wilco. Chi ha già
azzardato qualche corrispondenza di sensi con Summerteeth e Yankee Hotel Foxtrot
non è caduto lontano dalla verità, nel senso che per ricaricare le batterie dopo
stagioni interminabili di tour e sedute di registrazione, i Wilco hanno scelto
un compromesso, o meglio un bilanciamento tra l'immediatezza e la sperimentazione,
confine sul quale stanno giocando peraltro con maestria da un decennio almeno.
The Whole Love strizza l'occhio quindi alla semplicità diretta di una canzone
pop multicolore, memore anche dei recenti Sky Blue Sky e Wilco (the album), per
deviare subito dopo verso una ballata ombrosa e folkie (Rising
Red Lung forse l'apice di tale direzione), mai dimenticandosi di infilare
da qualche parte la follia strumentale della band.
Il compendio di questo
schema lo potremmo leggere fra le righe dei due poli opposti del disco: l'apertura
di Art of Almost suona come un manifesto,
ma è semmai un inganno, cuore avveniristico e pulsante dei Wilco, mentre
One Sunday Morning è la chiusura di sipario che riprende la tradizione
e la forma acustica dilatandola come una litania (dodici minuti!). La prima è
collocata stranamente ad inizio del viaggio: l'immacabile brano un po' audace,
un po' spiazzante appariva solitamente durante il percorso, qui invece annuncia
subito una rivoluzione che non ci sarà affatto. Spirali ritmiche nelle mani di
Glen Kotche, beat impazziti e pulsazioni, folle corsa finale con la chitarra di
Nels Cline che scappa in ogni direzione mentre Tweedy media le parole tra
il confessionale e il nonsense. Un mezzo capolavoro di art rock che non proclama
nessuna svolta: quello che segue è la "norma" Wilco, zigzagante quanto si vuole,
ma ancorata alla forma canzone. Quasi una "delusione" verrebbe da provocare...
I Might e Dawned
on Me rivedono l'amore per il garage e il pop dei sixties aggiornandolo
all'estetica dell'indie rock moderno, sempre alla ricerca del singolo perfetto
(Born Alone la sintesi?), mentre la caciara
elettrica di Standing O ricorda persino l'inizio
carriera di Being There (ricordate Outtasite?). Non è l'unico richiamo
presente: Sunloathe e la stessa Whole
Love rincorrono l'affetto per i Beach Boys e guarda caso sembra di
tornare davvero alle intuizioni di Summerteeth; Black
Moon cova sotto le ceneri una ballata dagli echi western, ricordandoci
la strada da cui Tweedy è partito vent'anni fa; Capitol
City raccatta una melodia da music hall un po' frivola che pare degna
del Paul McCartney ai tempi di Abbey Road. Nell'insieme sono tracce che anelano
ad una evidente semplicità e dove forse mancherà il guizzo geniale o più naturalmente
il colpo da ko. Per la prima volta un po' di mestiere insomma (ah, se il mestiere
fosse sempre così…), ma nulla che tolga valore al viaggio di questa fantastica
band. (Fabio Cerbone)
Una
versione deluxe - con un lussuoso libretto di una cinquantina di pagine - annovera
quattro brani in più: una luminosa I Love My label, cover di nick
Lowe, la quintessenza "wilconiana" di Message From Mid-Bar, uno
strumentale in odore di space-rock intitolato Speak into the Rose e una
nuova riproposizione di Black Moon.