Essendo conosciute al grande pubblico soprattutto in virtù della loro collaborazione
con Leonard Cohen, che le ha volute come coriste durante i tour degli ultimi quattro
anni, era anche logico aspettarsi che le sorelle britanniche Charley e Hattie
Webb, in occasione del nuovo album a cinque anni di distanza dal precedente
Daylight Crossing (ci sarebbe in realtà un ancor più stagionato Piece Of Mind,
risalente al 2000, ma credo non lo ricordino neppure le interessate), sfruttassero
in chiave discografica il prestigio del canadese. Non ci fosse stato lui, è lecito
supporre che le Webb Sisters avrebbero sperimentato maggiori difficoltà
nel reclutare il firmamento di strumentisti che illumina questo Savages:
personaggi dello spessore di Jay Bellerose e Russ Kunkel (tamburi), Roscoe Beck
(contrabbasso), Dean Parks (chitarre) o Leland Sklar (basso) sono abituati a presentare
parcelle che nessun artista indipendente può permettersi. Eppure Cohen
rappresenta, al tempo stesso, il limite più evidente dell'intero progetto, giacché
l'apparire della sua voce (intenta a recitare dal vivo i versi della classica
If It Be Your Will, poi interpretata dalla stesse Webb, in una curiosa
parentesi del tutto slegata dal contesto dell'album) ha l'effetto, controproducente,
di spazzare via in un battibaleno più o meno ogni restante dettaglio di Savages.
Che di suo, nonostante il gran sfoggio di featuring vari, nonostante l'eccellenza
dei musicisti coinvolti, nonostante le indubbie qualità multi-strumentali delle
intestatarie (entrambe bravissime nel destreggiarsi tra sei corde e tastiere,
percussioni e pianoforte, mandolino e vibrafono), suona freddo e distaccato, talvolta
incomprensibile e talvolta contrassegnato da scelte di pessimo gusto. Più che
a un album compiuto, insomma, il disco assomiglia a un collage di singoli poco
omogenei: alcuni brani - non c'è dubbio - colpiscono nel segno (penso in modo
particolare al trascinante pop'n'roll ottantesco, quasi alla Stevie Nicks, della
title-track e all'intenso gesto rootsy di una Burn
che non avrebbe stonato tra gli ultimi lavori di Charlie Sexton), ma sembrano
farlo per puro caso, ignari di qualsiasi criterio di congruenza rispetto al folk
albionico di Words That Mobilise, agli orpelli
gregoriani della tediocre Dark Sky, all'orripilante
miscuglio di pop e classica di una Blue And You che
per poco non si trasforma in un pezzo delle temibili Corrs. Gli altri pezzi, tutti
levigati dalla patina deluxe della produzione di Peter Asher (in cabina
di regia, in passato, per James Taylor, Linda Ronstadt e Bonnie Raitt, ma anche
Olivia Newton-John e Kenny Loggins), non spiccano né per evidenti demeriti né
per pregi manifesti.
Tuttavia, liquidare Savages ricorrendo alla formula
del "senza infamia, senza lode" sarebbe fin troppo generoso. Dietro tutte le sue
pantomime di genere si nasconde la supponente pretesa di decostruire codici e
linguaggi tramite un virtuosismo esasperato, altezzoso e, in sostanza, freddo
e pesante come il marmo: la tipica mistificazione di chi, non avendo alcunché
da aggiungere, si limita a cercare il grado zero dell'espressione musicale - il
folk-rock o la classica, il pop radiofonico o la canzone d'autore - senza una
briciola d'amore o partecipazione. Ma se in questo disco non vi accorgete di nulla,
non di uno scarto o di un sussulto, è solo perché, di fatto, non c'è nulla se
non un'inquietante alone museale. Le canzoni, alla fine, scompaiono, relegate
al rango di oggetti inanimati sullo sfondo. In primo piano ci sono pose e atteggiamenti:
un po' poco, per farci un disco. (Gianfranco Callieri)