Fa un po' ridere pensare che le prime presentazioni di Kurt Vile lo
descrivessero come un seguace di Bruce Springsteen e Bob Seger, visto che il suo
album del 2009 Childish Prodigy (il terzo della sua carriera) è stato un vero
successo di critica negli ambienti più progressivi e indipendenti della critica
musicale, tanto da guadagnarsi anche una sponsorizzazione da parte di Kim Gordon
dei Sonic Youth. Vile, cantautore di Philadelphia, è infatti uno di quei personaggi
che si muove ai margini della roots-music con un fare "indie" che crea sempre
un certo interesse ed evita che lo si confonda con l'ultimo hobo del Texas o il
penultimo "nuovo Dylan". Da sempre fedele all'immagine del one-man-band da strada
(era l'immagine di copertina del suo secondo disco), ma ormai convertito alle
gioie di un suono più pieno di una band, potremmo collocarlo in un'area prossima
al compianto Vic Chesnutt, uno che piaceva sia ai conservatori che ai progressisti
della musica.
Smoke Ring For My Halo è il suo nuovo lavoro,
prodotto dall'esperto John Agnello (Sonic Youth, Dinosaur Jr.) con un piglio decisamente
alternativo, con la chitarra acustica di Kurt sempre in primo piano e il resto
dalla band (i Violators) sempre comunque in disparte. La forza di Vile è sicuramente
nei bei arpeggi che sorreggono i suoi brani, e non certo nella voce, che cerca
effettivamente l'accento del sud di Tom Petty, ma finisce per sembrare come se
fosse filtrata elettronicamente anche quando non lo è, avvicinandolo piuttosto
all'essenzialità del folk stralunato di M Ward. In alcuni casi la particolarità
diventa un punto di forza, come nell'elettrica Puppet
To The Man che sarebbe piaciuta al Robyn Hitchcock di metà anni 80,
altre volte invece, quando la ballata segue addirittura giri acustici da west
coast anni 70 (On Tour), il suo fare atteggiato
stride un po'.
Quello che si nota subito ascoltando Smoke Ring For My
Halo è una certa indecisione tra voglia di volare basso con un disco volutamente
lo-fi (Jesus Fever), e tentativi non sempre
ben definiti di strutturare i propri brani in chiave più pop (Peeping
Tomboy o Ghost Town), che rende
l'album in qualche modo irrisolto. Resta comunque la testimonianza di un buon
talento, anche se non è ancora questo a nostro parere il disco che lo conferma
a livelli di eccellenza, ma visto che sul titolo si sta comunque scatenando un
piccolo hype nel web, dategli una chance, trovare artisti come questo in grado
di unire nella discussione popoli rock distanti non è facile e resta buona occasione
di confronto. Se poi i complimenti a queste canzoni siano solo questione di perfetta
aderenza ad una moda del momento o vera gloria è decisione che resta dipendente
dal vostro buon senso. (Nicola Gervasini)