Social
Distortion
Hard Times and Nursery Rhymes
[Epitaph/
Self
2011]
Sgombrato
il campo da ogni equivoco, i Social Distortion nella versione aggiornata
al 2011 sono una rock'n'roll band che insegue la stella polare di un suono classico,
mainstream rock da strada e soprattutto da barricata che si colora persino di
influssi sudisti (provate con California (Hustle and
Flow) e la sua coralità da Sud bollente, dove pare di sentire addirittura
i Georgia Satellites!), uscendo allo scoperto con l'album più "addomesticato"
e tradizionale della loro travagliata carriera. Non lo si prenda però per un presunto,
improponibile tradimento, ne tanto meno per una caduta di stile: soltanto i sordi
potevano ancora pensare di relegare la creatura del delinquente Mike Ness (è rimasto
soltanto lui a fare da timoniere, con una line up nuovamente rivoluzionata e l'ingresso
del giovane David Hidalgo Jr. - proprio il figlio di… - alla batteria)
nella pantomima di una punk band californiana.
In Hard Times And
Nursery Rhymes scorre la passione e l'iconografia che da sempre cova sotto
le ceneri delle chitarre spianate: ci sono ancora le setlle polari di Hank Williams
(soprattutto lui, grazie anche alla versione tesa e tagliente di Alone
and Forsaken) e Johnny Cash, ci sono l'America della periferia e l'immaginario
dei perdenti di ogni latitudine, ci sono i teppisti e i ribelli senza causa tanto
cari a Ness (e lui ne è il primo testimone), c'è soprattutto un rock'n'roll che
sa parlare la lingua della strada (Can't Take It with
You, entusiasmante a dir poco nella sua voce punk soul) senza apparire
per forza di cose banale e rimasticato. Certamente Hard Times And Nursery Rhymes
non ha l'impatto frontale, veemente di White Light White Heat White Trash, ne
tanto meno raggiunge la magnifica sintesi di quel Sex,
Love and Rock'n'roll, che a tutt'oggi sembra ancora il loro punto di
maturazione più invidiabile, eppure ripercorrendo i temi cari alla poetica un
po' eversiva e "malavitosa" di Mike Ness, si prende gioco di se stesso, conducendo
i Social Distortion in quella terra di nessuno (oggi più che mai) dove il rock'n'roll
ha ancora voglia di suonare plateale, chiassoso e romantico.
D'altronde
come potrebbe essere altrimenti per un disco che apre le danze con uno strumentale
tuonante e minaccioso intitolato Road Zombie.
Siamo ancora in viaggio dunque e il bello dei Social Distortion è proprio l'idea
che si rimettano in carreggiata soltanto quando hanno veramente qualcosa da dire
e da dimostrare: un lavoro ogni sei/ sette anni, anche di più, mai per "essere
presenti", semmai per risvegliare le coscienze di chi li ha sempre visti come
una nota scomoda, duri e puri anche nella loro ingenuità. E la copertina degna
di John Steinbeck è la migliore istantanea della band in questo 2011: vecchia
America un po' malandata, da nuova depressione, rivista però con il gain
dell'amplificatore girato sul 10, come se le Dust Bowls di Woody Guthrie potessero
improvvisamente infondersi di elettricità, tanto da fa nascere, letteralmente,
Diamond in the Rough, o da ricordare, appunto,
i "tempi duri" in Bakersfield. Prendere o
lasciare, i Social Distortion sono sempre gli stessi in fondo, e una nota di Gimme
That Sweet and Lowdown o della riottosa Machine
Gun Blues basta e avanza per farceli amare anche in questa veste più
saggia. Still Alive insomma, come canta Ness
nel finale: e se lo dice lui, che ne ha viste passare di cotte e di crude sotto
i suoi occhi, possiamo fidarci. (Fabio Cerbone)