Prima
o poi era da mettere nel conto: i Richmond Fontaine superano il confine
fra musica e narrativa e si lasciano trascinare in un confuso ciclo di canzoni
che, seppure non possieda la presunzione di certi concept album (qui viaggiamo
in territori troppo "minimalisti", lontani dalla sontuosità di certi
progetti), sacrifica in larga parte l'elemento compositivo per gettarsi completamente
dentro un groviglio di personaggi, storie, veri e propri capitoli in cui l'aspetto
letterario prende il totale sopravvento. Inevitabile forse di fronte al peso della
scrittura di Willy Vlautin, autore ormai di short stories e romanzi talmente
apprezzati da avere sfondato anche la barriera del cinema, con il suo celeberrimo
Motel life trasformato di recente in un lungometraggio dai fratelli Polsky
e recitato fra gli altri da Dakota Fanning, Stephen Dorff e Kris Kristofferson.
The High Country è già stato curiosamente definito una sorta di
"gothic soap opera", ironica sintesi che non rende tuttavia giustizia alla profondità
delle liriche di Vlautin, dense e dure ma cariche di uno spietato sguardo d'autore
che non può essere ridotto a certo sentimentalismo d'accatto. I suoi protagonisti
sono un giovane della working class, un meccanico, innamorato di una ragazza commessa
al negozio di ricambi auto, sullo sfondo di un Oregon e più in generale di un
moderno West americano desolato e pieno di contraddizioni.
La storia (e
il disco) si svolge lungo diciassette episodi che sono visti come pagine, descrizioni
e relative unità di un unico romanzo: nel mezzo dello svolgimento brani strumentali,
recitazioni, disturbi radiofonici scandiscono i passaggi. I Richmond Fontaine
hanno dato forma così alla scrittura di Vlautin dimenticandosi però della fruibilità
di un simile disegno musicale: a tratti secco e vibrante, con momenti di improvvisa
furia punk garage che riporta agli esordi della band, The High Country è pronto
però a trasformarsi in un disco borioso ed evanescente. Nel primo caso accade
di innamorarsi della cruda scorza elettrica in The Chainsaw
Sea o della furia di Lost in the Trees,
di lasciarsi inghiottire dalla strozzata malinconia in
The Eagles Lodge e Let Me Dream of the High
Country, quest'ultima cantata dall'alter ego femminile di Vlautin nello
sviluppo della storia d'amore, Deborah Kelly (ex Damnations).
Nel
secondo invece resta il dubbio di una musica cinematica, una sorta di colonna
sonora abortita fra i vari incastri rappresentati da The
Girl on the Logging Road, The Mechanic Falls
in Love with the Girl, gli stridori di Angus
King Tries to Leave the House e la pura recitazione di
Claude Murray's Breakdown, dove Dan Eccles, Dave Harding e il buon
Paul Brainard (una pedal steel, la sua, così caratteristica nel suono del gruppo
e un po' assente questa volta) dilatano il desert sound tipico dei Richmond Fontaine
fino a renderlo impalpabile. Resta la consolazione di una cavalcata finale,
The Escape, sfumata poi nella direzione della morbida chiusura acustica
con Leaving, ma è solo una lontana suggestione:
i Richmond Fontaine hanno deciso di essere una propaggine di una novella di Willy
Vlautin, noi li preferivamo come un'entità più definita, anche solamente una normale
rock'n'roll band. (Fabio Cerbone)