Donald
& Jen MacNeill with Lowlands Fathers And Sons
[Route 61
2011]
Vive una storia tutta
particolare nel backstage di questo album, un racconto che vede il giovane Edward
Abbiati, leader dei pavesi Lowlands, passare un periodo negli anni 90 su
una sperduta isola della Scozia, dove scopre che Donald MacNeill, l'uomo
che lo ospitava, si dilettava a scrivere e a suonare canzoni folk per la gente
del posto. C'è un epilogo felice quindi, che vede i due ritrovarsi dopo quasi
vent'anni per dare vita ad un songbook fatto di tutte le storie di quelle isole
dimenticate dal tempo e dagli uomini. Sapevate, ad esempio, che nel 1940 una nave
piena di emigranti italiani venne fatta affondare davanti all'isola di Colonsay,
sulle cui spiagge oggi ancora si possono trovare lapidi in loro onore? Colonsay
come Lampedusa insomma, con situazioni storiche ovviamente ben diverse, ma un
unico senso, quello di scoprire come spesso mondi lontani vengano sempre, prima
o poi, volenti o nolenti, uniti da un filo indissolubile. E' questo il tema centrale
di Fathers And Sons, sia la canzone che narra questi avvenimenti,
sia l'album che vede Abbiati e il chitarrista Roberto Diana produrre un disco
davvero sorprendente (registrato negli studi "Little Pink" di Pavia), alla scoperta
di un vecchio cantautore che non ha una grande carriera da raccontare, ma molte
buone canzoni da cantare, brani che seguono le coordinate del più classico brit-folk,
influenze americane comprese.
Non è un caso che l'unica cover del disco
sia The Morning Lies Heavy di Allan Taylor,
uno degli autori che meglio ha incarnato il rifiuto di abbandonare le melodie
tradizionali, non negando mai comunque il debito di riconoscenza verso la scena
folk americana di Dylan e Tom Paxton. Il vecchio MacNeill viene aiutato dalla
figlia Jen, voce e flauto, che da sempre segue il padre nella costante
attività dal vivo anche con il violino, in questa occasione lasciato in dote a
Chiara Giacobbe, vera mattatrice del sound del disco. Il risultato è un disco
di taglio decisamente classico, che forse apprezzerete solo se siete già sintonizzati
su queste coordinate, ma Fathers and Sons conferma che quella del brit-folk non
è una lingua morta, ma una tradizione ancora in grado di generare nuove grandi
storie come queste.
E sarebbe bello raccontarvele nel dettaglio, come
il lontano ricordo del primo giorno di scuola (The School
Room), il senso di appartenenza ad una terra che fa sì che la fuga
sognata da tutti i giovani del posto si trasformi presto in una dolorosa lontananza
(Fair Tides), o la capacità di rendere epica
anche la descrizione di una vita umile e fatta di semplici sentimenti (Wear
Something Simple). I Lowlands stanno attenti a non invadere troppo
il campo, non portano in dote il loro rock ma una sensibilità folk che rende anche
gli strumentali (Farewell To Govan e la quasi
bluegrass Bouncing Babies) non dei semplici
riempitivi, mentre i due scozzesi tradiscono a volte la poca dimestichezza con
gli studi di registrazione, ma basta anche solo la splendida interpretazione di
What'll We Do per capire che sanno davvero
come toccare le corde giuste. (Nicola Gervasini)