Non
sappiamo se il numero sette porterà fortuna a Will Hoge e soprattutto se
la sua natura di artista sia così scaramanticca da credere alla cabala, di fatto
Number Seven sembra dirci "ci sono riuscito", un altro traguardo
di una carriera che finalmente pare avere trovato una certa stabilità, non solo
discografica. Ribadito il sodalizio in casa Ryko e grazie ad un parterre ricchissimo
di musicisti di quella Nashville divisa tra Americana e rock'n'roll, Hoge rinsalda
il suo spirito e cura ogni dettaglio fra southern rock, canto soul e energia blue
collar, mettendo in pratica un riassunto delle tappe precedenti. Da Draw
the Curtains a The
Wreckage fino al qui presente Number Seven si distende infatti una
linea di continuità che porta oggi il rocker del Tennessee a lavorare con mestiere
sulle canzoni, esaltando anche le potenzialità radiofoniche e i ganci pop della
sua scrittura, senza mai scadere dentro quel recinto di banalità che popola certo
suono mainstream americano. Di fatto è ancora un figlio del Sud il nostro Will,
con un accento country sotto le braci del rock'n'roll e di una voce potente e
nera, quella che resta la sua arma migliore per trascinarci in undici episodi
di onestissima e febbricitante american music.
Mancherà sempre quella
zampata di originalità e genio che lo costringe viceversa a giocare la parte dell'eterno
outsider, ma non ci si può non commuovere di fronte al calore memphisiano dei
fiati sprigionato nel finale di When I Get My Wings,
lasciarsi rotolare nella polvere western di Silver Chain
e stringersi nel sentimentalismo sudista (il soul, sempre lui, è qualcosa che
ti trovi addosso quasi per nascita) di Trying to Be a
Man, almeno di non avere un cuore di pietra. La differenza non è rappresentata
tuttavia da scossoni elettrici, gli stessi che nel recente passato erano forse
soltanto stati meno efficaci: in Number Seven tuonano ancora le chitarre e si
gonfiano le voci, a cominciare dall'apertura con Fool's
Gonna Fly e Too Old to Die Young.
Semmai è la scrittura di Hoge a farsi un poco più personale e persino amara: la
profonda ballata American Dream ha un taglio
inedito e la dura The Illegal Line, con chitarre
che mollano fendenti, fa anche meglio nel suo tratteggiare con semplicità l'orizzonte
aspro dell'immigrazione clandestina negli States.
L'altra faccia è invece
quella di un disco che non disdegna mai una strizzatina d'occhio alla melodia
accattivante, al coralità di un country rock dal timbro stradaiolo (No
Man's Land la più ruspante del lotto): Goddam
California potrebbe finire dalle parti di certo suono texano contemporaneo
(leggasi "Red Dirt"), Gone è un
singolo facile facile e sin troppo scaltro, mentre Nothing
to Lose riassesta il tutto con quella ariosa intonazione che fa tanto
Tom Petty periodo Into the Great Wide Open. Parecchi dejà vù insomma, ma anche
una sicurezza se andate cercando gli ultimi romantici del rock'n'roll ancora in
circolazione. Will Hoge rientra nella categoria e anche con un certo orgoglio:
ad un pizzico di originalità ci penseremo la prossima volta. (Fabio
Cerbone) www.willhoge.com