John
Hiatt Dirty Jeans and Mudslide Hymns
[New
West
2011]
La
lenta resurrezione artistica avviata da John Hiatt grazie a Open
road prosegue in Dirty Jeans and Mudslide Hymns, per
qualità di repertorio e soluzioni produttive forse il suo disco più ispirato da
diversi anni a questa parte. Lasciando per strada la stanchezza compositiva e
alcuni camuffamenti che vivevano di rendita sul passato, Hiatt riprende in parte
una scrittura più schietta, anche dura e spesso dal taglio narrativo, quella che
sottende i migliori episodi del nuovo lavoro. Peccato ci siano altalenanti risultati
nella stesura delle tematiche e dei testi, rendendo a volte il disco un saliscendi
fra ballate ombrose, pienamente inserite nel quadro di un'America virata al nero
e ai margini, e altre più romantiche e affettuose, che richiamano direttamente
la vita personale dell'artista. Sul primo versante giochiamo sul sicuro e ritroviamo
il John Hiatt più fedele alla sua cultura sudista di storyteller, dall'altra parte
invece c'è qualche banalità di troppo, comunque ben mascherata da soluzioni sonore
mai scontate. Un merito che va ricostruito di pari passo con la band ormai rodata,
con Doug Lancio alle chitarre e la sezione ritmica formata da Kenneth Blevins
e Patrick O'Hearn, e un nuovo produttore, Kevin Shirley, che a dispetto
di un curriculum rock mainstream (dagli Aerosmith ai Black Crowes passando per
Iron Maiden e Dream Theatre) riesce a scovare una chiave intelligente per offrire
profondità e prospettiva alle canzoni del nostro.
L'immutabilità di Hiatt
è in definitiva la certezza di un autore che non ha più nulla da chiedere, se
non buone vibrazioni e ballate che di tanto in tanto scaldino il cuore: in Dirty
Jeans and Mudslide Hymns il suo accento southern e soul si spande su brani country
rock e piccole folk song che recuperano un po' di rabbia di recente scomparsa.
È il caso di Damn This Town, una riedizione
in tono minore di Perfectly Good Guitar a livello sonoro per una storia dai toni
noir e maledetti. Anche Down Around My Place,
cronaca dell'alluvione che ha minacciato il sud e Memphis, compresa la casa dell'artista,
sceglie toni scuri, mantenedo una struttura roots che ritorna in chiave più tradizionalista
in Train to Birmingham, vecchia canzone degli
anni giovanili recuperata dalla memoria, come conferma lo stesso John Hiatt, e
All the Way Under. Qui la band risuona rustica
e bluesy come ai tempi dell'ottimo Crossing Muddy waters, restituendo il senso
storico e i profumi terrigni che sono sempre appartenuti alla musica di Hiatt.
Anche Detroit Made rinfresca la memoria, con
un rock'n'roll semplice semplice che corre spedito come capitava in Slow Turning,
mentre Adios to California inverte la rotta
verso un country rock da grandi spazi…e il titolo d'altronde non si smentisce.
Molti dunque i ricordi personali che affiorano in queste composizioni,
nonostante, come anticipato, siano le ballate dal piglio amoroso e coniugale a
coprire il lato soul dell'artista: Don't Wanna Leave
You Know, con un leggero tappeto di archi, oppure
'Til I Get My Lovin' Back e la più ombrosa Hold
On For Your Love. Qui l'ispirazione dei versi non è sempre all'altezza
e non manca di scadere nell'ordinario (la vivace cartolina di
I Love that Girl, deliziosa sotto l'aspetto musicale ma un po' troppo
raffazzonata nelle parole), fino alla chiusura fuori posto di When
New York had Her Heart Broke, ennesima rievocazione dell'11 settembre
che non manca di citare vite spezzate e immancabili eroi con una certa convenzionalità…arrivando
forse eccessivamente in ritardo, seppure in linera con l'anniversario della tragedia.
(Fabio Cerbone)