inserito 29/08/2011

John Hiatt
Dirty Jeans and Mudslide Hymns
[
New West  
2011]



La lenta resurrezione artistica avviata da John Hiatt grazie a Open road prosegue in Dirty Jeans and Mudslide Hymns, per qualità di repertorio e soluzioni produttive forse il suo disco più ispirato da diversi anni a questa parte. Lasciando per strada la stanchezza compositiva e alcuni camuffamenti che vivevano di rendita sul passato, Hiatt riprende in parte una scrittura più schietta, anche dura e spesso dal taglio narrativo, quella che sottende i migliori episodi del nuovo lavoro. Peccato ci siano altalenanti risultati nella stesura delle tematiche e dei testi, rendendo a volte il disco un saliscendi fra ballate ombrose, pienamente inserite nel quadro di un'America virata al nero e ai margini, e altre più romantiche e affettuose, che richiamano direttamente la vita personale dell'artista. Sul primo versante giochiamo sul sicuro e ritroviamo il John Hiatt più fedele alla sua cultura sudista di storyteller, dall'altra parte invece c'è qualche banalità di troppo, comunque ben mascherata da soluzioni sonore mai scontate. Un merito che va ricostruito di pari passo con la band ormai rodata, con Doug Lancio alle chitarre e la sezione ritmica formata da Kenneth Blevins e Patrick O'Hearn, e un nuovo produttore, Kevin Shirley, che a dispetto di un curriculum rock mainstream (dagli Aerosmith ai Black Crowes passando per Iron Maiden e Dream Theatre) riesce a scovare una chiave intelligente per offrire profondità e prospettiva alle canzoni del nostro.

L'immutabilità di Hiatt è in definitiva la certezza di un autore che non ha più nulla da chiedere, se non buone vibrazioni e ballate che di tanto in tanto scaldino il cuore: in Dirty Jeans and Mudslide Hymns il suo accento southern e soul si spande su brani country rock e piccole folk song che recuperano un po' di rabbia di recente scomparsa. È il caso di Damn This Town, una riedizione in tono minore di Perfectly Good Guitar a livello sonoro per una storia dai toni noir e maledetti. Anche Down Around My Place, cronaca dell'alluvione che ha minacciato il sud e Memphis, compresa la casa dell'artista, sceglie toni scuri, mantenedo una struttura roots che ritorna in chiave più tradizionalista in Train to Birmingham, vecchia canzone degli anni giovanili recuperata dalla memoria, come conferma lo stesso John Hiatt, e All the Way Under. Qui la band risuona rustica e bluesy come ai tempi dell'ottimo Crossing Muddy waters, restituendo il senso storico e i profumi terrigni che sono sempre appartenuti alla musica di Hiatt. Anche Detroit Made rinfresca la memoria, con un rock'n'roll semplice semplice che corre spedito come capitava in Slow Turning, mentre Adios to California inverte la rotta verso un country rock da grandi spazi…e il titolo d'altronde non si smentisce.

Molti dunque i ricordi personali che affiorano in queste composizioni, nonostante, come anticipato, siano le ballate dal piglio amoroso e coniugale a coprire il lato soul dell'artista: Don't Wanna Leave You Know, con un leggero tappeto di archi, oppure 'Til I Get My Lovin' Back e la più ombrosa Hold On For Your Love. Qui l'ispirazione dei versi non è sempre all'altezza e non manca di scadere nell'ordinario (la vivace cartolina di I Love that Girl, deliziosa sotto l'aspetto musicale ma un po' troppo raffazzonata nelle parole), fino alla chiusura fuori posto di When New York had Her Heart Broke, ennesima rievocazione dell'11 settembre che non manca di citare vite spezzate e immancabili eroi con una certa convenzionalità…arrivando forse eccessivamente in ritardo, seppure in linera con l'anniversario della tragedia.
(Fabio Cerbone)


www.johnhiatt.com


   


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