"Bianco
e nero, ma non senza sangue rosso nelle vene", immagine calzante che ci offre
lo stesso Joe Henry per leggere in controluce questo ambizioso e asciutto
Reverie, disco che solo apparentemente sottrae, svuota e in realtà
costruisce minuziosamente lavorando sugli spazi. Profonda disamina sullo scorrere
del tempo e sull'influenza che quest'ultimo esercita sul senso di amore, perdita
e spritualità, Reverie richiama ancora una volta l'attenzione sulla complessità
della scrittura di Henry, anche sulla sua cifra molto letteraria, là dove
i personaggi e le storie descritte possiedono sempre un carattere sospeso, molto
metafisico, per cui si collocano immediatamente fuori dell'ordinario. È la capacità
insomma di suonare qui e ora ma rimandare nello stesso istante a qualcosa di classico:
caratteristica che possiedono in pochi e che forse accomuna Henry soltanto a Tom
Waits. Un nome non evocato a caso, se è vero che stilisticamente (e non solo per
il dato superficiale della presenza di Marc Ribot in Tomorrow
Is October e Deathbed Version)
molte di queste ballate umide e dal tocco jazzy anelano non poco al Waits maliconico
e notturno della prima parte di carriera. Potremmo aggiungere l'elegante e leggera
vena di un Randy Newman e avremmo trovato un altro punto di riferimento, ma sarebbe
comunque riduttivo e ingrato nei confronti di un autore ormai emancipato, maturo,
entrato nell'età della sapienza.
Da riverito produttore di successo a
songwriter raffinato e intellettuale che gioca con il folk, la canzone pop d'autore
e le gradazioni cool del jazz, Joe Henry può permettersi di fare anche accademia,
come accade in qualche passaggio del nuovo Reverie, senza per questo apparire
minimamente spento o prevedibile. La cinquina iniziale è d'altronde un'esibizione
di bellezza inappuntabile: l'abbandono di Heaven's Escape
e la sua morbida melodia retrò, le densità sprituale nell'invocazione di Odetta,
i chiaroscuri da late hour di After The War
fino alla fisicità da cabaret blues di Sticks & Stones
e al fluttuare di Grand Street. Un rincorrersi
fra pianoforte (ruolo centrale il suo nel disco, qui nella mani del bravissimo
Keefus Ciancia) e chitarra acustica che abbozza le melodie attenendosi
all'essenzialità, eppure risultando multiforme e misterioso. È un po' di quel
sangue rosso a cui faceva riferimento lo stesso Henry in apertura; in concreto
è il frutto della presenza mai scontata di David Piltch e Jay Bellerose, sezione
ritmica che lavora ormai ad occhi chiusi e qui pare scarnificare ancora di più
certe intuizioni ereditate da Civilians.
Nello specifico Reverie è stato impresso su nastro nello studio casalingo
di Henry, in quelli che sono stati definiti tre giorni di esplorazione: finestre
aperte, i rumori della strada sullo sfondo (li potete sentire alla fine di ogni
brano, fra cani, automobili e mamme che chiamano i loro bambini), come a simboleggiare
la questione centrale dello scorrere del tempo. Un espediente un po' studiato
se volete, ma ciò che conta è il carattere dell'opera: il brusco segno country
blues di Dark Tears e
Deathbed Version, il romanticissimo abbandono di Eyes
Out For You e la seranata di Unspeakable,
prodromi di un finale in crescendo, dopo una parte centrale a tratti indecisa
sul da farsi, che stringe sulla serenità di The World
And All I Know. Lasciatelo decantare: è un album che nella sua
scarna natura può ingannare. (Fabio Cerbone) www.joehenrylovesyoumadly.com