Forse l'avevamo data per morta troppo presto. Certo che gli ultimi due dischi
(che anche qui non erano parsi affatto all'altezza) avevano fatto pensare decisamente
al peggio. Eppure anche il primo ascolto di questo Let England Shake
non era stato affatto incoraggiante, soprattutto per chi non riesce ancora oggi
a staccarsi dall'immagine della Harvey come una rocker con un terzo di Nick Cave,
un terzo di Patti Smith ed un terzo dei Nirvana. PJ è cambiata, c'è poco da fare,
non è più la sfacciata venticinquenne di To Bring you My Love, ha ormai raggiunto
e superato la quarantina e qualcosa in lei è profondamente mutato. Si era capito
già dai lavori precedenti che la Harvey da allora in poi si sarebbe mossa su territori
decisamente più introspettivi e lontani dai grovigli elettrici del passato. E
in questo senso, Let England Shake è il diretto discendente di White Chalk ed
A Woman and a Man Walked By.
Tuttavia, a poco a poco la matassa sembra
sbrogliarsi. Bisogna andare avanti con gli ascolti per permettere a questo disco
di farsi largo nella sua essenza. Non siamo di fronte ad un'opera facile, né immediata.
Però siamo pure lontani anni luce dal tedio incipiente delle ultime due prove
discografiche. Let England Shake è un disco caleidoscopico, personalissimo, cerebrale,
introverso e a volte pure fastidioso, eppure è un lavoro di una lucida originalità
e di una personalità artistica spiccatissima. I ruggiti elettrici (che pure non
sono del tutto spariti) lasciano qui posto ad un canto etereo e talvolta misteriosamente
vicino alla nenia, senza essere per questo disturbante. Le sventagliate blues
lasciano il posto ad un'indole folkish (prettamente britannica) che tuttavia sembra
aver subito un trattamento a base di centrifuga. Spesso è l'autoharp a sostituire
la chitarra come strumento portante delle canzoni, mentre qua e là spuntano fuori
ora sezioni fiati ora corni da caccia che danno alle canzoni un aura senza tempo.
Ma
sono proprio le canzoni a differenziare questo nuovo disco dalle ultime produzioni.
La Harvey pare essersi liberata da quei fantasmi che offuscavano le pagine di
White Chalk, soprattutto da un punto di vista lirico, e sembra aver qui intrapreso
uno sforzo compositivo notevole. Andrebbe letto al contrario, Let England
Shake. Infatti, la spigolosità e la complessità sia melodica che armonica
dei primi pezzi si va mano a mano stemperando, in una sorta di anticlimax, per
giungere alla (quasi) orecchiabilità ed immediatezza dei brani finali, la corale
The Colour of the Earth, in cui ricompare
la voce di John Parish, la sghemba Written on the Forhead,
dove nel bel mezzo di un'atmosfera sospesa fanno capolino perfino sbuffi reggae
e la dolce Hanging in the Wire, forse il pezzo
più "pop" mai scritto dalla Harvey (per quanto pop sui generis). Altrove, come
in Bitter branches o nella splendida In
the Dark Places, sembra far capolino la vecchia Polly Jean, più elettrica
e sfacciata, ma sono solo episodi isolati. Perfino quell'acutissimo falsetto che
degli album passati pareva infinitamente disturbante, trova qui in On
a Battleship Hill, uno dei pezzi più difficili e più intensi del disco,
la sua ragion d'essere. Bisogna aver pazienza con questo disco, tuttavia, pur
nel suo essere sghembo e, a volte, autoindulgente, Let England Shake potrebbe
col tempo rivelarsi il vero capolavoro della maturità di PJ Harvey. (Gabriele
Gatto)