Ry
Cooder Pull Up Some Dust and Sit Down
[Nonesuch
2011]
Sette:
ma dovrebbe essere otto o cinque, dipende tutto da quale parte state, da cosa
avete deciso di aspettarvi dalla roots music e dai suoi vecchi eroi per questi
anni dieci. Nel caso di Ry Cooder il discorso è semplice: il grande cercatore
d'oro della tradizione americana ha messo su casa, si è impiantato con i mille
bauli di ricordi raccolti in più di quarant'anni di onorata carriera, e da lì
sembra proprio che non abbia più l'intenzione di muoversi. La grande presenza
di Ry Cooder in fondo stava tutta nella sua assenza, perchè nei vent'anni circa
in cui ha rinunciato a produrre opere a suo nome (se non in coabitazione), lui
ha scandagliato tutte le possibili infiltrazioni che potevano aiutare la musica
rurale americana a fare nuovi passi avanti. La riscoperta di Cuba (Buena Vista
Social Club), dell'Africa (Ali Farka Toure), del soul (Mavis Staple), del blues
(Terry Evans) - e potremmo andare avanti per molto - sono tutte state funzionali
alla creazione di un suono delle radici che fosse universale e omnicomprensivo.
In questa ottica perfino il recente viaggio in Irlanda con i Chieftains (che ha
prodotto l'album San Patricio) è sembrato solo una tardiva dimenticanza,
un buco rimasto scoperto di una tela che il nostro ha lavorato per anni come una
vera Penelope. A partire da Chavez
Ravine (2005) però il nostro Ulisse è tornato, e questo Pull
Up Some Dust And Sit Down è solo il quarto capitolo di una nuova discografia
volta a riassumere e mettere ordine nelle mille idee raccolte nel suo vagare.
Minestra riscaldata o piatto di alta cucina, a voi la scelta, a noi il
dovere di rimarcare che la recente carriera di Cooder sta producendo dischi indubbiamente
interessanti sia come argomenti che come realizzazione (buoni voti erano piovuti
anche per My name is Buddy e I,
Flathead), ma che oggettivamente Ry è definitivamente entrato nel club
degli artisti immobili, quelli che ripropongono brani come No
Banker Left Behind (fotografia della crisi econimica americana e mondiale
del dopo "Lehman Brothers") o esercizietti tex-mex come El
Corrido di Jesse James (e con Christmas Time
This Year siamo quasi alla parodia di se stessi) dimenticandosi che
in album come Boomer's Story o Chicken Skin Music questa materia era già stata
sviscerata in maniera più che soddisfacente. O semplicemente quelli che ancora
sperano di poter candidare John Lee Hooker per le prossime presidenziali (il programma
elettorale è chiaramente illustrato in John Lee Hooker
For President: one bourboun, one scoth, one beer...).
Di nuovo
c'è solo qualche rimando in più al blues-rock metallico di un album come Get Rhythm
(un piacere risentire numeri come Lord, Tell Me Why o
I Want My Crown), e in genere un migliore
dosaggio della miscela rispetto ai due dispersivi predecessori, tra il solito
invece tanta classe (ma c'era da dubitarne?), ma anche poca voglia di essere ancora
un musicista da prima linea. Non è un sacrilegio, parecchi suoi colleghi hanno
fatto questa scelta molti anni prima di lui, però ora anche i dischi di Ry Cooder
non riservano più l'eccitazione del primo giorno di scuola, ma al massimo il sapore
amarognolo di una reunion tra vecchi compagni di classe. (Nicola Gervasini)