E'
un'apocalisse privata, intima ("My Apocalypse", è ripetuto in più punti), quella
inscenata nei sette intensi movimenti dell'ultimo disco di Bill Callahan.
Anche quando lo sguardo pare abbracciare una dimensione politica, come in America!,
lo fa per marcare l'inadeguatezza dell'autore a "servire la patria", a seguire
l'esempio di quell'esercito di folksinger i cui gradi sono passati in rassegna
nei versi della canzone ("Captain Kristofferson, Buck Sergeant Newbury, Leatherneck
Jones, Sergeant Cash - what an army!"). L'America di Callahan non è dentro la
storia, ma nella natura, tra paesaggi da western crepuscolare e la wilderness
salvifica di H.D. Thoreau: un luogo dell'anima suggerito dal dipinto di Paul Ryan
in copertina e introdotto dai 5 minuti di lenta epifania di Drover,
che dà il tono al disco accompagnandoci nelle riflessioni di un mandriano errante.
Finché in fondo al viaggio, ad apocalisse avvenuta (o immaginata, o sperata),
la voce di One Fine Morning si domanda, sentendosi
già parte della terra e della strada: "vi sentirò viaggiare sulla mia schiena?".
Questa apocalisse non è distruzione ma palingenesi, voglia di rinascita: ricerca
di un approdo.
Ogni canzone è un quadro indipendente, ma è anche parte
di un "polittico" che illustra un percorso, dallo smarrimento al ritrovamento
di sé. Andando nei dettagli: Drover, sorta di flamenco destrutturato, suona
come i Calexico ai confini del mondo; Baby's Breath
è un racconto di amore e perdita sorretto dal cuore palpitante di un vecchio blues
di Lightnin' Hopkins e disturbato dai feedback della chitarra di Matt Kinsey;
America! sposa ricordi di Smog a un groove di chitarra che è funk metropolitano,
mentre evoca tra sarcasmo e nostalgia un paese in cui "a tutti è concesso un passato
che si ha cura di non menzionare". Universal Applicant
- ermetico apologo di un uomo legato su una barca in mezzo all'acqua che, nel
tentativo di liberarsi, ne provoca l'affondamento - è il turning point del disco:
tesa e psichedelica, quasi una danza pellerossa, nella prima parte, si scioglie
verso la fine (l'accettazione del proprio destino?), conducendoci a Riding
For the Feeling, il brano meno spigoloso, l'unico che avrebbe potuto
trovare spazio anche su I Wish We Were An Eagle, una meditazione sulla "via più
veloce per raggiungere la riva".
Free's
flirta con flauto e cimbali, quasi alla ricerca di una dimensione da "settimane
astrali", mentre One Fine Morning è - in parallelo al misticismo panteistico
delle liriche - la cosa più vicina al gospel che vi potete aspettare da Callahan,
puntellata dal piano di Jonathan Meiburg (Okkervil River, Shearwater).
Di contro alla morbida densità sperimentata negli arrangiamenti di archi e fiati
e nel tono dolcemente malinconico del disco precedente, qua il linguaggio, pur
nella sua essenzialità, appare disarticolato, espressionisticamente scomposto.
A cucire e dare unità è la voce di Callahan, fulcro emotivo e stilistico che riconduce
i vari elementi sparsi del suo folk non ortodosso a un'unità di significato. I
colori della tradizione sono mescolati per creare qualcosa che non è tradizionale
- le canzoni non hanno una struttura diritta, sembrano procedere per scarti emotivi,
come i cambi di tempo di Baby's Breath - ma
risulta comunque familiare. E' il suono di un mondo interiore che concilia gli
opposti, ricompone fratture e crea armonia dalla tensione. I
Wish We Were An Eagle era suonata ad alcuni opera di transizione, di
passaggio: Apocalypse mostra che il punto di (momentaneo) arrivo
è un luogo ove pochi artisti sono in grado di giungere. (Yuri Susanna)