Inclini come sono a rimanere
in perenne sospensione, adagiati nel morbido ventre di certe movenze psichedeliche
californiane di fine anni ’60, gli Arbouretum hanno trovato album dopo
album, la loro personale formula per un rock che muta costantemente ma è sempre
comunque riconoscibile. Il tratto del frontman Dave Heumann, in tour con il Bonnie
“Prince” Billy di Master and Everyone, sembra pagare sempre qualcosa a
quell’- esperienza, e in questo disco, più che nei due precedenti, certe melodie
vocali hanno il potere di imprimersi in testa già dai primi ascolti. Gli Arbouretum,
a metà strada come sono tra due identità musicali così old-fashioned, da un lato
la psichedelica californiana più heavy e dall’altro le andature dilatate dello
slowcore, riescono a miscelare tradizioni di classico rock americano con saturazioni
desert venate blues. Queste ultime, che in Rites of Uncovering e nella jam registrata
su Long Live the Well-Doer, si trasformavano in strumentali straripanti, lasciano
il posto a un songwriting dai tempi “marziali”, in cui è la sezione ritmica a
dettare l’andatura.
Il risultato sono degli inni dall’andamento rituale,
delle lunghe cavalcate che indugiano in distorsioni e mid-tempo ai limiti dell’ossessività,
in cui ogni traccia è il naturale prolungamento di quella che la precede. Se poi
a completare il quadro ci sono come fonte d’ispirazione per l’apparato lirico
la simbologia onirica e le bandiere tibetane della copertina, è chiaro come la
musica sia del tutto funzionale al flusso di coscienza dei testi. Anche la cover
di The Higwayman di Jimmy Webb è una piccola
gemma tutt’altro che avulsa dal contesto: benché rappresenti il momento musicalmente
più “disteso” del disco, in realtà col suo essere una cangiante elegia spirituale,
imbevuta di mistero e suggestioni, perfettamente si sposa con quanto di para-musicale
gli Arbouretum hanno voluto celebrare in questo disco. The Gathering è sicuramente
un ottimo punto di partenza per chi non conosce la band: è infatti l’album che
insieme a Rites of Uncovering, più di ogni altro tiene insieme tutto l’universo
dei nostri: folk-rock con chitarre sature che si erge in veri e propri droni come
nella conclusiva Song of the Nile, dieci minuti
di movenze doom affogate in un mare di riverberi. (Francesco Vitale)