Se nel mondo dell'industria discografica esistesse una giustizia, gli album
uscirebbero sempre con il nome del produttore in copertina, scritto a caratteri
grandi quanto quelli dell'artista magari, e non affogato nei credits leggibili
solo con lente d'ingrandimento. Discorsi ovviamente da ossessionati del rock come
noi, perché al pubblico che sente una bella voce o una bella melodia non è mai
fregato nulla di quale mente creativa o quali semplici processi industriali si
nascondo dietro un suono. Eppure anche se oggi le grandi industrie della canzone
non esistono quasi più, i nomi che sanno fare la differenza sui dischi ci sono
ancora (Rick Rubin, T-Bone Burnett,… l'elenco è facile). Anzi, fanno anche di
più, ora fanno anche dischi in proprio, e poi ci aggiungono un nome, una voce
che eviti che il disco cada nell'oblio, come è successo a praticamente tutti i
dischi solisti dei produttori (chiedete a Daniel Lanois se ha guadagnato di più
a sorbirsi una giornata di sessions degli U2 o a fare i dischi a suo nome). Praise
And Blame è un disco di Ethan Johns, sicuramente annoverabile tra
i dieci producers più importanti degli anni 2000 (curriculum disponibile mettendo
il suo nome nel "cerca" del nostro sito). E' la sua idea di una musica legata
alle radici, moderna e sempre adatta per un passaggio in radio come per una vostra
serata di godurioso ascolto solitario.
Ma Praise And Blame è anche il
suo trionfo personale, perché in mezzo ad una marea di inutili cover-album, lui
ne confeziona uno pieno di traditionals o brani già sentiti mille volte, e con
questo riesce a tenervi incollati fino alla fine alle casse dello stereo. Johns
ha fatto tutto alla perfezione, ha affittato gli attrezzati studios di Peter Gabriel,
li ha riempiti di splendidi session men (Booker T Jones, Benmont Tench, la coppia
David Rawlings-Gillian Welch, per dirne solo alcuni), ha trasformato brani non
certo inediti (a What Good Am I di Bob Dylan
ci aveva già pensato recentemente Solomon Burke, Ain't
No Grave è nell'ultimissimo capitolo degli American Recordings di Johnny
Cash), ha giocato con le chitarre (ruggiscono forte nella
Burning Hell che fu di John Lee Hooker) e ha ottenuto con Lord
Help, Run On, Don't
Knock e altri brani, lo stesso gospel-roots della Mavis Staples di
questi tempi.
Ah, dimenticavo, ha anche scelto Tom Jones per dare
un padre famoso all'album. Scelta straordinariamente felice, perché il vecchio
leone ha dimostrato di essere un vero professionista, capace di cantare perfettamente
Delilah come Kiss di Prince o Sex Bombs, oppure calare in piena chiave spiritual
un brano di Billy Joe Shaver (If I Gave My Soul,
da brividi) con una perfezione interpretativa che va ben al di là delle sue indiscutibili
doti naturali. Ora il mondo della musica si sorprende di questa svolta, ma provate
a mettere sul piatto un disco di Ray Lamontagne e successivamente guardatevi un
DVD di un concerto di Tom (magari lo spettacolare Live At Cardiff Castle del 2001),
e poi provate scandalosamente a pensarli assieme. Non vi sarà poi così difficile
immaginare che possa esistere Praise & Blame. (Nicola Gervasini)