Eccoci qua, a raccontare un disco già chiacchieratissimo e forse incompreso.
Anche da noi, certo. The Monitor è un'opera che nasce per essere
compresa (nel senso di abbracciata, assimilata) non senza sforzo: tanta la carne
al fuoco, esito di un'attitudine orgogliosamente "larger than life". La scelta
del tema, innanzi tutto: la guerra civile americana, in realtà mai finita (è questa
la tesi: "the enemy is everywhere"), con tanto di citazioni storiche a cucire
le varie parti. Poi, la durata e l'articolazione delle canzoni: alcune sono vere
e proprie mini-suite o sceneggiature astratte senza un vero centro di equilibrio.
E ancora, la pletora di comparse: nomi - membri di Hold Steady, Deer Tick, Felice
Brothers tra gli altri - importanti anche solo come dichiarazione d'appartenenza.
A un mondo, a una scena, a un fronte comune. Dopo che il primo disco autoprodotto
ha spinto la XL a reclutarli in scuderia, i Titus Andronicus rispondono
allo stress dell'opera seconda moltiplicando le ambizioni, gettando le cautele
alle ortiche e mandando l'ispirazione a pascolare libera.
Impossibile
non scorgere un po' di supponenza dietro questo gigantismo di intenti - non bastasse
avere rubato il nome a Shakespeare - ed è vero, come tanti si sono affrettati
a evidenziare, che la resa finale non è senza difetti ma, come è inutile guardare
un dipinto divisionista da vicino - vedremmo un affastellarsi di pennellate confuse
- così questo disco va giudicato per l'effetto d'insieme, non per le singole parti.
E' un blocco di roccia scolpito anche da martellate un po' sghembe ma, facendo
un passo indietro per osservarlo nella sua interezza, mostra la sua densità di
senso. E ogni cosa trova il suo posto: il punk sposato alle cornamuse, l'angst
transgenerazionale di chi pensa che "after ten thousand years it's still us against
them", il wall of sound da cui emergono canti ubriachi, piani scordati e profumi
celtici. I Social Distortion che incontrano i Pogues.
E dietro l'intellettualismo
da college (i ragazzi non nascondono di avere letto qualche libro: buon per loro,
ma non ce ne potrebbe importare di meno), dietro un nichilismo che non è certo
di prima mano ("All I want for Christmas is no feelings, no feelings now and never
again"), non sfugge l'urgenza liberatoria da "città piena di perdenti" che lascia
allo scoperto i due riferimenti a Springsteen (vengono dal New Jersey, dopotutto)
che aprono e chiudono il disco(rso): "'cause tramps like us, baby we were born
to die" sputa Patrick Stickles in A More Perfect
Union, per poi confessare in The Battle of
Hampton Roads, "I've destroyed everything that wouldn't make me more
like Bruce Springsteen". Una spallata data con lucida rabbia, insomma. Il muro
contro cui sbattono queste canzoni è lo stesso su cui urtavano le chitarre di
Hüsker Dü e Replacements più di vent'anni fa e, prima ancora, il no future dei
Pistols e l'immorale urlo primordiale di Iggy Pop ("You ain't never been no virgin,
kid, you were fucked from the start", si sente in A Pot
in Wich to Piss). Dopo un decennio e più di malinconici esteti che
quel muro l'hanno scrutato e cantato dalla loro stanzetta, c'era bisogno di qualcuno
che tornasse a urlare in strada.
Come ci ha detto un amico, questo disco
è una bomba. Lasciate che vi scoppi tra le mani, senza paura. Non rischiate certo
di farvi male, solo di svegliarvi dal torpore. (Yuri Susanna)