Dev'essere piuttosto frustrante per una band essere continuamente inseriti
nel novero dei musician's musicians, di quelli, per intenderci, che piacciono
tanto ai colleghi ma che, alla prova del nove del mercato, non sono mai riusciti
ad assestare il colpo decisivo. E pensare che gli elementi per il grande colpo,
la band di Glasgow li ha sempre avuti: un grande senso della melodia, uno sguardo
un po' rètro che strizza l'occhio a Big Star e Byrds per colorare le proprie trame
musicali, un'eccellente capacità di songwriting e quel pizzico di animosità indie
e rumoristica per ingraziarsi anche gli ascoltatori più "progressisti". A ciò
si aggiungano le lodi sperticate recitate nei loro confronti da personaggi di
grande rilievo pubblico come Kurt Cobain, che si definì profondamente ispirato
dal loro sound, Liam Gallagher e lo scriittore Nick Hornby, che non ha mai fatto
un mistero della propria preferenza per il gruppo scozzese. E non sono mancati
neppure i grandi dischi, a partire da Bandwagonnesque che, nel 1991, li proietto
all'attenzione della critica come una sorta di Dinosaur Jr. più melodici, per
giungere al capolavoro Songs from Northern Britain del 1997.
E bisogna
presumere che i Teenage Fanclub abbiano decisamente accusato il colpo.
Negli ultimi anni, una serie di rimescolamenti interni, con la dipartita di ben
due batteristi, e numerose incomprensioni con le case discografiche sembravano
aver proiettato il gruppo verso una lenta ma inesorabile parabola discendente.
E invece, quasi per miracolo, i tre leaders (una bella anomalia nel mondo del
rock, quella della leadership tripartita) Norman Blake, Raymond McGinlay e Gerard
Love mischiano nuovamente le carte in tavola, consegnandoci con Shadows
uno dei lavori più belli della loro pluridecennale carriera. Giocata la carta
dell'autoproduzione e dell'autodistribuzione, il disco decolla già dall'inizio,
con le raffiche power-pop di Sometimes I don't need to
believe in anything, per poi assestarsi su atmosfere più rarefatte
e meditative, sicuramente meno elettriche che in passato ma ricche di armonie
vocali, intrecci di chitarre à la Neil Young e discrete punteggiature di pianoforte
e tastiere.
Ma è dalla metà in poi che il disco decolla letteralmente,
mettendo in fila una serie di canzoni che rasentano la perfezione. Shock
and awe è un pezzo byrdsiano come non se ne sentivano più da un bel
po' di tempo ed entra di diritto fra i migliori brani mai registrati dai Fanclub,
When I still have thee, con la sua cantabilità
è una pop song pressochè perfetta e purissima, Live with
the seasons è una di quelle canzoni che Brian Wilson non riesce a scrivere
più da trent'anni, Sweet days waiting è una
delicatissima ballata ricamata da preziosi ricami delle chitarre di Blake e McGinlay
ed intarsiata da sottili screzi di glockenspiel, The
back of my mind è un altro grande pezzo pop-rock e la chiusura in chiaroscuro
di Today's never ends, dalle inedite atmosfere
vagamente countreggianti chiude il cerchio con grande classe. Insomma, se anche
con gli anni i Fanclub hanno perso un po' della carica rumoristica ed esuberante
degli esordi, questo disco però ci riconsegna una band vitale, magari leggermente
più meditativa ma sicuramente in grado di stupirci anche nel futuro. (Gabriele
Gatto)