Jason
& The Scorchers
Halcyon Times
[Blue
Rose
2010]
Il mito greco di Alcione (Halcyon) indica la venuta di un periodo di relativa
calma e pace, annunciato a cavallo dei giorni del solstizio d'inverno dalla figlia
di Eolo, trasformata dagli Dei in uccello. Accostare il nome di Jason & The
Scorchers alla mitologia è quanto di più bizzarro e improponibile ci possa
essere, loro così sanguigni, sfacciati, chiassosi eredi di un roots rock da rinengati
e fuorilegge. Eppure sono proprio Jason Ringenberg e Warner Hodges, ultimi autentici
sopravissuti della formazione originale, a scomodare in qualche modo un raffronto:
intitolando il disco dell'inaspettato come back artistico Halcyon Times
sembrano ricordarci che si possono vivere nuove stagioni (e nuovi solstizi), senza
per questo motivo apparire fuori tempo massimo. Solitamente si scomoda il trito
luogo comune del "avevamo ancora qualcosa da dire": non è detto che fosse il caso
di Jason & The Scorchers, ma in tempi in cui l'Americana siede sugli allori e
le chitarre elettriche latitano, il loro uscire allo scoperto non suona per niente
anacronistico o peggio ancora dettato da piccoli tornaconti di mercato.
Sono giustificati fin dalla prima nota sul solco di Moonshine
Guy: questa ripartenza è una fragorosa festa rock da scavezzacolli,
e probabilmente il miglior disco degli Scorchers dai tempi di Lost and Found.
Avete capito bene, lasciate perdere i loro tentativi di restare dignitosamente
a galla negli anni '90, con un paio di anonimi lavori in studio per la Mammoth,
passati in fretta nel dimenticatoio, e non considerate neppure quella coda lunga
nella Nashville della fine degli anni '80, con dischi sempre più pompati e al
limite dell'hard rock. Halcyon Times è un album di rubicondo rock delle radici,
roba da guasconi del rock'n'roll certo, ma con armi per nulla spuntate. Ringenberg
e Hodges hanno rimesso in piedi la baracca nel 2008, dopo una fortunata ed estemporanea
tournè europea: il primo probabilmente stanco di cantare per i bambini (svariate
le produzioni a tema in questi anni), il secondo in pausa dai suoi progetti solisti
e con gli Homemade Sin di Dan Baird (quest'ultimo, guarda caso, ospite e co-autore
in molti episodi di Hlacyon Times). Tirato dentro il batterista svedese Pontus
Nibb, un uragano ritmico che batte come un forsennato, richiamato l'amico
Al Collins al basso, ecco spuntare la nuova reincarnazione della band.
Pensate che non sia la stessa cosa? Avete ragione, per carità, ma messi
da parte ricordi e recriminazioni, Jason & The Scorchers non scrivevano ballate
tonanti come Beat on the Mountain (saga mineraria
che parla della loro dura terra del Midwest) e Mother
of Greed da tempo immemorabile. Essendo quindi coinvolti in sede di
songwriting anche il citato Dan Baird e soprattutto Tommy Womack,
l'intero progetto decolla sulle ali di un honky tonk al testosterone, che ringhia
e sobbalza come se Nashville fosse ancora li, tutta imbellettata, pronta da incendiare:
Twang Town Blues ci racconta esattamente questa
storia, citando ovviamente Johnny Cash, poi ci pensano Mona
Lee, Gettin' Nowhere Fast e una
We've Got It Goin' On che spara l'ultima cartuccia
punk, a far crollare i muri. Jason Ringenberg sa ancora dare voce alla semplicità
della sua gente e delle sue radici, ma qui il vero mattatore è Hodges, chitarrista
che dal tocco boogie rock assasino alla tradizione country passando per la definizione
di un perfetto suono mainstream ci offre in una sola manciata Golden
days, Days of Wine and Roses, una
sferzante Deep Holy Water e infine una strepitosa
Land of Free, che sa persino di psichedelia
e southern rock messi insieme. È anche il brano con le liriche più apertamente
"politiche": sia chiaro, a Jason & The Scorchers non chiediamo di andare a braccetto
con Steve Earle e se anche la loro filosofia risulta un poco spicciola ci accontentiamo,
perché appena girato l'angolo sappiamo che arriverà una spacconata come
Better Than This, qualche chitarra acustica, aria disinibita e selvaggia
come gli Stones più alticci e tutti intorno ad un microfono a divertirsi. E chi
se li sarebbe mai aspettati così carichi! (Fabio Cerbone)