Josh
Ritter
So Runs The World Away
[Pytheas
Recordings 2010]
"Senza direzione e alla deriva da qualche parte nell'oscurità". Basta leggere
i versi di Change Of Time che aprono il sesto
disco di Josh Ritter per capire subito che stavolta non avremo a che fare
con il suo famoso "bright smile", quella sua inconfondibile delicatezza che ha
reso dischi come Hello Starling o The Animal Years dei "must" di questo decennio.
Qualcosa sta cambiando anche negli umori di questo timido songwriter, se è vero
che So Runs The World Away è forse il suo disco più sofferto, fin
dal titolo che parla di un mondo che sfugge e dalla malinconica copertina. E la
storia insegna che è proprio da questi momenti di passaggio della vita, dolorosi
ma necessari, che nascono o dei capolavori, o come in questo caso dei dischi emotivamente
stravolgenti quanto spigolosi e non risolti, perché appunto viaggiano "senza direzione
e alla deriva …". "Sei maledetto?" gli chiede la protagonista nel finale della
bellissima ballata pianistica The Curse,
"No, penso di essere guarito" risponde lui, e poi la bacia sperando però che lei
abbia già dimenticato la domanda.
Ed è proprio questo senso di dannazione
nascosta e incomunicabile che si respira in queste canzoni, dove Ritter ha dato
sfogo a mille sentimenti contrastanti, lasciandosi cullare dalle dolci note di
Southern Pacific per poi non darsi pace con
il blues di Rattling Locks ("c'era un tempo
in cui avevo la chiave giusta…"). Ed è lo stesso Ritter che abbandona subito l'insolita
spavalderia di arrangiamenti e soluzioni esposta nel precedente The
Historical Conquest per trincerarsi nella triste e classicissima giga
di Folk Bloodbath, melodia già scritta mille
volte nel tempo, stavolta al servizio di una delle più riuscite dark-story del
suo repertorio. Eppure a volte appare anche fin troppo indeciso sulla strada da
intraprendere, e viaggiando a tentoni nel buio inciampa in qualche episodio davvero
minore per i suoi standard (l'accoppiata Lark
e Lantern uccide non poco la splendida tensione
tenuta fino a quel momento dal disco), sperimentando senza trovare sempre la formula
giusta (la monotona The Remnant poteva trovare
sviluppi migliori) o cercando nuovi giochi vocali perdendo un po' di vista la
canzone (See How Man Was Made).
Ma il tormento lavora così, spinge Josh a creare l'inizio di una grande opera
per poi farlo piombare nel più classico degli album di transizione, ma ci pensano
i sette minuti e passa di Another New World
a togliere qualsiasi insano dubbio sulla sua tenuta artistica: solo uno dei grandi
può infatti scrivere un brano così perfetto, calandosi nei tormenti di un Cristoforo
Colombo in cerca di un nuovo mondo, che ha tutta l'aria di non essere neppure
quello descritto in questo diario di bordo. Sul futuro, come sul finale di Long
Shadows, calano le lunghe ombre dell'ignoto, ma noi marinai dobbiamo
solo avere fiducia in questo giovane capitano, sembra che abbia un po' perso la
rotta, ma nel brano conclusivo ci tranquillizza cantando "non ho paura del buio,
ci sono già stato prima". (Nicola Gervasini)