Anders
Osborne
American Patchwork
[Alligator
2010]
L'American Patchwork di Anders Osborne è un puzzle umano ridotto
in mille pezzi, la vita di un musicista e di un uomo che ha visto ridotti in cenere
i suoi sogni, la sua cominità e quella città, New Orleans, che lo aveva adottato
a metà degli anni ottanta da giovane immigrato svedese in cerca di fortuna, dentro
quello che lui crede ancora sia il sogno americano. Il nuovo contratto con la
Alligator si trascina dietro un cambiamento significativo, simboleggiato anche
esteriormente da quella figura randagia, barbuta che emerge dalla copertina. Osborne
sembra mettere anche esteticamente una distanza dalla liricità e dall'afflato
soul che mostrava in Coming
Down, l'album dalle tinte "vanmorrisoniane" con cui lo avevamo lasciato
soltanto tre anni fa. American Patchwork prende ben altra direzione:
è un disco che recupera la vitalità del rock, i fremiti del blues e li unisce
in un lavoro elettrico, pulsante, estremamente istintivo. Per qualcuno è già l'opera
che meglio sintetizza le due anime del musicista, mediando come ai tempi di Ash
Wednesday Blues fra il songwriter acustico sudista e il chitarrista elettrico
dal tocco assassino.
Mi permetto di dissentire, anche perché è evidente
sin dalle prime note della livida On the Road to Charlie
Parker e nella successiva Echoes of My Sins
quanto American Patchwork abbia voglia di alzare il volume, persino
nelle ballate, grazie ad un suono più diretto, roccioso, per quanto festaiolo.
La collaborazione con Stanton Moore (co-produttore e titolare della batteria)
porta in seno una band ridotta all'osso, dove scompaiono dalla vista i fiati e
le pulsoni r&b per fare spazio ad una New Orleans più swamp rock e paludosa, dove
le chitarre di Osborne e le tastiere di Robert Walter formano un combo più asciutto
e serrato. Non necessariamente un difetto, anche se le sfumature del citato Ash
Wednesday Blues (e ancor di più dello splendido Living Room) sono un lontano ricordo.
Osborne è chiamato a esorcizzare i suoi fantasmi, personali e collettivi, alternando
amare confessioni come nell'iniziale On the Road to Charlie Parker (la strada
è quella della dipendenza, si sarà capito…) a dure sferzate che si traducono un
rock'n'roll magmatico, anche un poco confuso se vogliamo, figlio del blues e del
funky (Killing Each Other) a tratti dai toni
hendrixiani e con uno slidin' feroce (Darkness at the
Bottom, Love Is Taking Its Toll).
A fare da contraltare alcune luminose ballate che ritornano sui passi
di inizio carriera, dentro un sound più "pop" in senso lato (Call
On me chiude con una dedica a Jackson Browne e all'amato sound della
West Coast), cercando di addolcire il clima e aprirsi un varco verso la speranza:
è il caso di una leggera Got Your Heart, dagli
inediti tratti caraibici e reggea, e ancora di Standing
with Angels e Meet Me in New Mexico,
tra le canzoni più immediate scritte da Anders Osborne in carriera. Nonostante
tutto non reggono però la perfezione raggiunta in passato, qui forse solamente
necessarie a blandire con una carezza l'autore stesso: American Patchwork diventa
allora un disco assai personale, messaggero forse di ulteriori sviluppi. (Fabio Cerbone)