Certo che non c'è nulla
da fare, alcuni dischi sono entrati nella testa degli americani come trivelle.
A occhio e croce, Miles Nielsen da Chicago, Illinois, alla stregua di milioni
di suoi connazionali nati a cavallo tra gli anni '70 e '80, deve aver ascoltato
quegli "n"-fantastiliardi di volte i dischi dei Cheap Trick della prima fase (quella
che culmina nello storico live At Budokan [1979] e prosegue lo stesso anno nell'ancora
salvabile Dream Police). Certo, ho il sospetto che il fatto di essere figlio del
chitarrista che dei Cheap Trick fu fondatore abbia avuto il suo peso nella massiccia
esposizione del ragazzo ai suoni del genitore, ma sapete, non è sempre detto che
le cose della vita si sviluppino con una logica coerente e, in fondo, Stella McCartney
fa la stilista e Zak Starkey è un batterista assai migliore di quanto sia mai
stato l'adorabile papà Ringo. Sta di fatto che pezzi quali Gravity
Girl, Good Heart Sway e Don't
You debbono moltissimo all'impasto di armonie, velocità e ganci melodici
che furono della (sottovalutata) band di Robin Zander e Rick Nielsen, in pratica
- ricordiamolo - degli Aerosmith più poppettari, beatlesiani, insensatamente catchy.
Siccome si cresce, e siccome non si possono sviluppare ossessioni monomaniache
nei confronti di una sola band (oppure sì, si può, ma i risultati sono raramente
degni di nota), bene ha fatto Nielsen, in tutti gli anni avuti a disposizione
per preparare questo omonimo debutto, ad affiancare al miglior power-pop americano
uno studio intenso delle radici country del paese, fino a sviluppare una vera
e propria ossessione per Gram Parsons e i Jayhawks. Quando tutti gli interessi
appena citati interagiscono come si deve, ecco spuntare un piccolo capolavoro:
mi riferisco a quella stupenda rock-ballad in formato country che risponde al
nome di Lost My Mind, che nonostante la breve
durata riesce a frullare Beatles, Cheap Trick, Flying Burrito Brothers e country-rock
anni '70 con estro davvero impareggiabile. Non male neppure l'iniziale A
Festival, omaggio nemmeno troppo velato al Tom Petty di vent'anni fa,
e la trascinante Lucy, patchwork scanzonato
di pop, swing e rock'n'roll che non sarebbe dispiaciuto ai Traveling Wilburys.
Se invece Sugaree è di nuovo roots-rock, corretto
seppure un filo prevedibile, assolutamente spiazzante è il meeting tra Roy Orbison
e new-wave britannica (stagionata) dell'ultima The Crown,
ancor più sorprendente se pensiamo che anche qui, come del resto nell'intero programma
di Miles, Nielsen ha fatto tutto da solo (o quasi), lasciandosi accompagnare soltanto
dall'amico e produttore (a quattro mani col titolare) Daniel James McMahon.
Sarà che di dischi ascrivibili alla categoria del "country-pop", in
senso buono e senza alcun riferimento alla Nashville più becera, non ne escono
quasi mai, ma la freschezza di Miles Nielsen mi sembra una compagna perfetta per
questa primavera in ritardo. Polemiche sui figli d'arte? Non esistono. E se qualcuno
dovesse a sproposito sollevarle, suggerisco a Nielsen, giusto per continuare nelle
citazioni beatlesiane, di rispondere come l'impagabile Ringo Starr di fronte alla
notizia della "riabilitazione" dei Beatles da parte dell'Osservatore Romano e,
quindi, del Vaticano tutto: "I couldn't care less", non potrebbe fregarmene di
meno. (Gianfranco Callieri)