Ray
Lamontagne and The Pariah Dogs
God Willin' & The Creek Don't Rise
[RCA/
Sony
2010]
La certezza che Ray Lamontagne sia ormai diventato una delle voci
fondamentali del folk americano (da intendersi nel senso più ampio possibile)
di questi anni è confermata proprio dal tenore di un'uscita come God Willin'
& the Creek Don't Rise: un disco simile e differente al tempo stesso dai
suoi predecessori, il quale, come capita soltanto ai grandi fuoriclasse, fa di
uno stile, di un portamento, di un immaginario musicale la trama per impercettibili
varizioni, piccoli dettagli e scarti che sono la forza di un autore ormai libero
di esprimersi senza remore con il suo carattere. Nulla apparentemente è cambiato,
almeno in maniera radicale, dai lavori che lo hanno preceduto, eppure nel primo
disco completamente autoprodotto all'interno del suo personale studio di registrazione,
Lamontagne sembra avere fatto tesoro degli insegnamenti del produttore storico
Ethan Johns, portando a casa un soffio di ballate dai sapori agresti che viaggiano
sul filo di un country "cosmisco", molto anni settanta, in cui Neil Young e Gram
Parsons incrociano al largo l'amore mai sopito per la soul music, il blues e le
radici.
Potremmo definirlo il disco Americana di Ray, se non fosse una
banale sigla fin troppo riduttiva: è certamente un album meno spirituale ed etereo
dei primi due lavori solisti e più omogeneo, quasi univoco, rispetto al suo predecessore,
il fortunato Gossip
in the Grain. Così probabilmente a qualcuno è parso finanche un disco
troppo timido, addirittura approssimativo: ci permettiamo di dissentire e prendere
una decisa sterzata, con la sensazione insomma che God Willin' & the Creek Don't
Rise sia una sorta di riassunto e rielaborazione dei diversi stili già epressi
in passato, solamente accentuati, anzi amplificati da una band stellare che nelle
generale atmosfera rilassata di queste session ha letteralmente benedetto il canto
di Ray LaMontagne. La pedal steel di Eric Heywood, le chitarre e gli altri
strumenti a corda assortiti in mano a Greg Leisz, la batteria di Jay Bellerose
non sono incontri che ti capitano tutti i giorni e fa bene il nostro Ray a sfruttarli
con quella parsimonia che riesce miracolosamente a bilanciare le canzoni: cuori
spezzati, malinconia agrodolce, esortazioni e sfoghi accompagnano il vocabolario
di New York City's Killing Me, Beg
Steal or Borrow, For the Summer,
ballate che brillano sui sentieri di un country rock soffice e dai colori pastorali.
In tale direzione si potrebbe giocare con il passato e affermare che
se le personali icone di LaMontagne erano sembrate agli esordi Van Morrison, Tim
Buckley e tutta la progenie di "disperati" folksinger da Tim Hardin in poi, oggi
nella godereccia pastosità country di Old Before Your
Time, nella frenesia gospel blues di The Devil's
in the Jukebox e negli episodi già citati in precedenza, il vero faro
siano i cantautori più tradizionalisti della prima metà dei settanta. Ben sapendo
che la black music, l'anima nera di Ray Lamontagne, non è scomparsa ma semmai
esce imperiosa in quella voce sabbiosa e languida che si ritrova: il numero funky
appiccicoso, sexy di Repo Man in apertura
spiazza e travolge, non assomiglia a nulla di quello che vi farà seguito, ma trova
comunque il suo spazio nell'economia generale di God Willin' & the Creek Don't
Rise, alleggerito da un suono asciutto, mentre alla dolcissima This
Love Is Over è affidato il ruolo più sentimentale, sorta di aggiornamento
del classico Ain't no Sunshine di Bill Withers, soul acustico a livelli eccelsi.
Oggi però l'anima di Ray Lamontagne si mostra meno scura e tormentata, il "sole
nero" del passato ha lasciato definitivamente per strada la cupa solitudine e
la stessa malinconia dei brani si è resa più dolciastra:
Like Rock & Roll and Radio chiude con una chitarra acustica e uno
sbuffo di armonica…e tutto è perfettamente allineato. (Fabio Cerbone)