Era montato adagio il clamore intorno al secondo disco dei Midlake,
una fascinazione che ha ghermito più di un cuore, posizionandolo in alto
in molte classifiche di fine anno. Era il 2006. Ora il terzo lavoro (quello
difficile, com'è noto) giunge fatalmente come una delle uscite più attese
di questo spicchio di 2010. Cosa ha aggiunto lo iato di quasi quattro
anni al suono del gruppo di Denton, Texas? Più che aggiunto, ha tolto
qualcosa. Se The Trials of Van Occupanther era un disco autunnale, The
Courage of Others emana in qualche modo una luce invernale: la
tavolozza è ridotta alle tinte più opache, mancano quelle cavalcate elettriche
che facevano pensare a Neil Young, ed è stato quasi abbandonato l'uso
dell'idioma indie contemporaneo, che poneva i Midlake nel calderone di
un suono Americana che in realtà non è il loro principale orizzonte di
riferimento. Ne resta giusto un'ombra nel nervosismo elettrico di Children
of the Ground e nella ballata che intitola il disco, fatta
della stessa pasta di quelle di Bonnie Prince Billy.
Manca anche un singolo da traino come Roscoe, ma non è necessariamente
un male. Questo è un album organico (monolitico, direbbero i maligni o
quelli con poca pazienza - vedi il 3,6 (!) che gli ha affibbiato Pitchfork),
intriso delle nebbie delle brughiere e dei colori di stagioni lontane.
E' il folk-rock inglese di quarant'anni fa, verso cui il leader Tim
Smith non nasconde la sua profonda ammirazione, che troviamo riletto
in queste 11 canzoni: Nick Drake, i Fotheringay. Anche i Jethro Tull,
depurati delle pesantezze hard-prog (sentite le carole tra chitarre elettriche
e flauto in Small Mountain e The
Horn). La voce di Smith conosce bene le tonalità più umbratili,
è un lamento che sale dalle brume della terra gelata dall'inverno. Descritta
così, la musica dei Midlake sembra un'improbabile collisione tra Morrisey
e i Fairport Convention… e non siamo poi troppo lontani dal vero. Forse
non è un passo avanti, questo disco. Ma neanche un passo indietro: semmai
l'esplorazione di un lato del proprio animo musicale. Chissà, la prossima
volta magari ci regaleranno un disco solare ed estivo.
Per il momento questi texani atipici, che non devono avere mai indossato
uno Stetson in vita loro, mostrano di prendersi molto sul serio - dopotutto
sono diplomati al North Texas College of Music: omaggiano il quattrocentesco
pittore russo Andrej Rublev (citato nella pretenziosa - e anche un po'
kitsch - copertina) e guardano all'Europa e ai suoi antichi valori come
la terra promessa che salverà la civiltà occidentale dalla decadenza (e
da MTV, secondo le dichiarazioni di Smith). Noi, al di qua dell'Atlantico,
rimaniamo un po' scettici ma ci lasciamo rapire da queste melodie pastorali
fuori del tempo, da queste fantasie preindustriali, dalla circolarità
ipnotica degli arpeggi, dalle armonie a piedi nudi nell'erba di Fortune,
dalla malia della voce che ci invita a lascarli entrare ("Oh let me inside,
let me inside, not to wake", chiede Acts of Man),
fino al crescendo drammatico di In the Ground,
che si placa in una apparente quiete pastorale. I barbari sono venuti
a salvarci? Non sarebbe neanche la prima volta. (Yuri Susanna)