Richard
McGraw
Burying the Dead
[Non
Utopian 2010]
A volte album come questo ti incantano, ti trasmettono qualcosa di magico
e di sincero fino a commuoverti e farti piangere, dando una grande voglia di riascoltarlo.
Negli Usa è già chiamato il figlio illegittimo di Leonard Cohen e qui in Europa
è un perfetto sconosciuto. Originario di Brooklyn Richard McGraw è già
alla sua terza prova sulla lunga distanza. Dovrebbe essere già famoso come Will
Oldham (Bonnie Prince Billy) o Conor Oberst, invece preferisce scrivere canzoni
e poesie lavorando ai margini del business come un vero Loser o come un
semplice "singer of the room". E' proprio l'intimità dell'album e la
grazia dei testi a far amare questo songwriter. Anche se il vero punto di riferimento
rimane il poeta canadese sia per l'azzeccata cover di The Faith da Dear Heather
del 2004 e la riscrizione di Chelsea Hotel#2 convertita in Balmville Motel (altro
Motel maledetto) veramente commovente. Ppenserei anche a un Townes Van Zandt moltiplicato
per Micah P. Hinson e diviso per Elvis Perkins, anch'egli di New York. E dal suo
sito tra le sue fonti ispiratrici figura persino il nostro Fabrizio De André.
E proprio a reclamare questa rinascita del cantautorato della Grande Mela,
insieme a una spiccata figura del poeta maledetto, che Richard Mc Graw prende
le sue mosse. Nelle sue canzoni Richard parla di sofferenza di perdita di cari
ed amici e di mortalità con una vena molto romantica e spirituale a volte quasi
religiosa. Si parte da That old song che sembra
uscire dal cassetto di Elvis Perkins per passare a My
Life cover di Billy Joel, stravolta e spogliata dalle velleità strumentali
e arricchita da un coro da brivido, a Hunting Heart
con una melodia accattivante e un arrangiamento azzeccato.
E che dire
della spiritualità di On Our Knees, con un
mandolino in sottofondo da pelle d'oca e una voce tanto intensa quanto profonda
che quasi ricorda il primo Willie Nile, o infine del pathos creato nell'intensa
Ashville e della melodia di Young
Men, che ti cattura fin dai primi ascolti. Si finisce con la ballata
apocalittica di Her Town e con l'indimenticabile
Grace, brano arrichito da una tastiera che
sembra un organo. I brani sono tutti belli ed intensi e bisogna fare girare il
disco per intero al fine di apprezzarlo fino in fondo. Lasciamo che la sua musica
parli da sola. Un gioiello da conservare con cura e un nuovo poeta metropolitano. (Emilio Mera)