Songwriter, chitarrista, produttore e altro ancora, Will Kimbrough
porta fiero il titolo di "reinessance man", sigla che solitamente viene
scomodata per quegli artisti tanto influenti e stimati quanto completamente ignorati
dal grande pubblico. Nell'altra Nashville, quella che sguazza da sempre ai margini
fra canzone d'autore e Americana, Will Kimbrough è una vera e propria istituzione,
una sorta di Re Mida che ha posto la firma su molte collaborazioni importanti:
l'elenco è lungo e da Todd Snider a Rodney Crowell, da Jimmy Buffett a Billy Joe
Shaver neppure così omogeneo come si potrebbe pensare. Il fatto che sia approdato
al quinto lavoro solista nel plauso generale dei colleghi e della critica la dice
lunga sulla qualità un po' defilata della sua musica, la quale resta un intelligente
dimostrazione di scrittura tradizionale, senza eccedere in nostalgie e revival.
Anche il qui presente Wings conferma infatti la regola di un songwriting
superbamente intarsiato tra melodia pop, chitarre folk e spazzi di passione soul,
le tre coordinate che muovono dagli inizi la voce e la penna di Will Kimbrough.
Oggi più che in passato la scelta di ridurre al minimo gli orpelli,
di registrare fondamentalmente in acustico insieme alla sezione ritmica formata
da Paul Griffith e Tim Marks, esalta i piccoli dettagli e le rifiniture di una
serie di ballate che non hanno bisogno di lustrini. Wings - a partire proprio
dalla title track scritta con Jimmy Buffett e inclusa nel recente Buffett Hotel
in una versione più elettrica - è un disco che dispiega con pazienza il suo infinito
charme: fra la leggerezza country di Three Angels
e il commovente soul di Love to Spare Kimbrough
afferma di essersi immerso in quel laid back sudista che appartiene di
diritto a JJ Cale (evidente nello swamp indolente di It
Ain't Cool, firmata insieme a Todd Snider), seppure qui declinato con
quell'inconfondibile retrogusto pop che gli deriva dalla devozione, mai nascosta,
per John Lennon.
Sono i punti cardinali dell'autore, nonostante oggi
appaia più sommesso del previsto, impegnato dall'età matura a parlare di
famiglia e responsabilità: sono distanti i colori sgargianti di album quali
Americanitis e Home, tanto che You Can't Go Home
rispolvera dalla soffitta un banjo e si dirige verso la campagna, mentre
The Day of te Troubadour (secondo brano, come il precednete, scritto
con l'apporto di Jeff Finlin) e Big Big Love
si "accontentano" di poche misurate soluzioni, un organo in sottofondo, qualche
coro femminile (al disco partecipano Julie Lee, Jonell Mosser, Dawn Kinnard fra
le tante colleghe), la voce in primo piano. Un lavoro di sottrazione dunque, che
funziona a patto di lasciarsi guidare un poco da questa dolce pigrizia sudista
(Let me Be Your Frame) senza cercare particolari
rivelazioni: alla fine basta il soffio dei fiati di Jim Hoke e Steve Herman in
Open to Love per tirare fuori dal cilindro
una magnifica ballata soul che da sola vale il prezzo del biglietto. (Fabio
Cerbone)