Jamey
Johnson The Guitar Song
[Mercury/
Universal 2010]
Attualmente la voce più autentica che bazzichi le strade lastricate d'oro
della Nashville che conta, Jamey Johnson è un talento che alla country
music mancava da diverso tempo: non credo di esagerare nell'affermare che si tratti
di uno dei pochi personaggi in questi anni ad essere riuscito a traghettare la
tradizione degli outlaw dei '70 verso la modernità senza perdere un briciolo di
credibilità, mantendosi dentro il mainstream (il precedente That
Lonesome Song ha raggiunto una considerevole cifra di vendite e raccolto
consensi unanimi di pubblico e critica) non scendendo minimente a compromessi.
Un disco come The Guitar Song, doppio album infarcito dalla bellezza
di venticinque canzoni è in fondo la conferma di quanto sto scrivendo: carta bianca
da parte dell'Universal per Johnson, che non si è fatto pregare e ha dato seguito
alle ballate da fuorilegge del precedente album con una ciclo di canzoni ambizioso,
dal taglio spesso autobiografico, scritte pricipalmente in tour e registrate in
diversi studi fra Los angeles, Nashville e la Florida, dividendo idealmente il
tutto in due capitoli intitolati "Black" e "White".
La prima parte, come
si può facilmente intuire, assume tonalità più cupe, sia nei testi che nella musica,
evidenziando un contrasto fra l'artista e il peso del successo, per crescere poi
in brillantezza nella seconda "facciata", fino ad abbracciare temi molto personali,
spesso legati alla fede e alla redenzione. Detto questo, il mood generale dell'album
resta invariato per l'intera durata: country rock robusto, honky tonk, ballate
strappalacrime e altri episodi dal sound più rurale, in una sequenza tutto sommato
bilanciata, nonostante la innegabile prolissità del lavoro. Merito mi pare di
poter dire anche del team produtivo e dei musicisti, sostanzialmente gli stessi
che hanno dato lustro al citato That Lonesome Song: tra i tanti vale la pena citare
il piano di Jim "Moose" Brown, che si fa notare anche all'organo nella country
song dai riflessi soul Heartache, le chitarre
di Wayd Battle, presenti in abbondanza e con spirito da autentico "oulaw" in Lonely
at the Top, Playing the Part, Dog
in the Yard, By the Seat of Your pants,
e ancora la pedal steel stellare e il dobro di Cowboy" Eddie Long, a offrire pennellate
di classe nelle riprese di Mental Revenge
(Mel Tillis), For the Good Times (Kris Kristofferson)
e Set 'em Up Joe (Vern Gosdin).
Proprio
dalla scelta delle cover appena elencate si intuiscono le radici del musicista
Johnson, che sa rendersi umile e farsi affiancare da numerosi collaboratori: Bobby
Bare, James Otto e Bill Anderson (in duetto nella title track) fra gli altri co-firmano
diversi episodi, dando l'impressione che Jamey Johnson sia una sorta di Waylon
Jennings (presumo che il paragone lo renda fiero) dei nostri giorni, entrambi
infatti in grado di attrarre intorno a sé un'intera scena di songwriter, amici
e musicisti. Il confronto è ovviamente anche musicale, non si scappa: nello scorrere
di California Riots, Macon
(splendida ballad dagli orizzonti sudisti), Good Time
Ain't What They Used To Be (scatenato honky tonk con la steel che impazza),
delle acustiche That's Why I Write Songs,
Thankful For The Rain e Front
Porch Swing Afternoon si può sentire palpabile il terreno comune, che
da Hank williams a George Jones, da Merle Haggard allo stesso Jennings infonde
la voce baritonale di Johnson. Lo stanno tutti a guardare e ne vanno orgogliosi,
potete starne certi: Jamey Johnson è degno di stare al fianco della loro
storia. (Davide Albini)