The
Jim Jones Revue
Burning Your House Down
[Pias/
Self
2010]
Be',
uno potrebbe anche chiedersi che senso abbia oggi un disco simile, che non inventa
assolutamente nulla e, anzi, si crogiola compiaciuto nel ricalco di modelli del
passato. Ma fidatevi, se amate il rock'n'roll più lercio e scassato, se pensate
che l'unico problema degli Mc5 fosse quello di essere in effetti molto più lenti
e composti di Little Richard, allora potete star certi di trovarvi di fronte a
uno degli album più spassosi dell'anno. La Jim Jones Revue prende nome
dall'omonimo frontman, che fu sguaiatissima voce dei britannici Thee Hypnotics
(quattro ottimi album tra il 1989 e il 1994), è composta da un pugno di ceffi
che ad occhio e croce spendono più in alcolici che in assicurazioni e giunge con
questo Burning Your House Down al terzo lavoro in poco meno di tre
anni. Naturalmente chi esordisce nel 2008 con brani intitolati, per esempio, Rock
N Roll Psychosis (tanto per capirci) non può essere più chiaro su quale
sia la strada dove si va a parare, e cioè quella di un rockaccio da bettola, depravato
come un malizioso doppiosenso dei vecchi Cramps, sconquassante e degenerato come
il vecchio Nick Cave, fradicio di boogie come in un vecchio vinile dei Flamin
Groovies.
Il ricorrere dell'aggettivo "vecchio" - in questa sede tutt'altro
che un'insolenza - è connaturato alla filosofia stessa di un album il cui orologio
biologico sembra tarato sulle abitudini discografiche di cinquant'anni fa, roba
insomma che non si faticherebbe a immaginare appena sbucata, in un ipotetico viaggio
nel tempo, dalle sale di registrazione della Sun Records, in quel di Memphis,
magari in giorno in cui gli inservienti, invece che col disinfettante, avessero
deciso di innaffiare le superfici del mixer con bourbon e benzedrina. Burning
Your House Down contiene le canzoni che avrebbe potuto comporre un Jerry Lee Lewis
incavolato nero per una coda d'auto troppo lunga in qualche autostrada del Tennessee,
oppure degli Stooges prodotti da Charlie Rich piuttosto che da John Cale.
Viscere,
droghe, filamenti ubriacanti di pianoforte, alberghi di quart'ordine, superstizioni,
chitarre impugnate con la finezza di un salumiere, tamburi che pestano un beat
tanto anacronistico quanto travolgente: a tenere insieme un simile trionfo di
scompostezza provvede Jim Sclavunos (Grinderman), forse pensando più allo
psychobilly dei suoi Vanity Set che all'eleganza delle ultime prove di Re Inkiostro,
ma l'impronta esplosiva dei pezzi migliori è tutta farina del sacco della "rivista"
di Jim Jones. Chi ama raggomitolarsi nella depressione dei tanti, malconci menestrelli
contemporanei stia alla larga. Chi ama perdere la testa per le scalmane del rock'n'roll
più zotico e screanzato si segni i titoli di Premeditated
e Big Lens (sul versante dell'omaggio impertinente
alle radici), o di Killin' Spree e High
Horse (sul versante della bollitura degli amplificatori per eccesso
di velocità), e si prepari a saltare per aria. (Gianfranco Callieri)