inserito 17/03/2010

Nicolai Dunger
Play
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Fargo/ Self  2010
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Nicolai Dunger è un mistero ben conservato tra i ghiacci svedesi. La terra che ci ha regalato simpatiche nefandezze come gli Abba (praticamente la versione scandinava dei Ricchi e Poveri - ed evitiamo per pudore di menzionare i Roxette) ma anche le visioni oscure degli Opeth e il post-hardcore dei formidabili Refused - per non parlare dei numerosi contributi in campo indie di questo ultimo decennio (Jens Lekman su tutti, ma vanno ricordati almeno Peter Bjorn & John e Stina Nordenstam) - la Svezia, dicevamo, non ha partorito figure di pari peso nell'ambito dei folksinger più orientati al roots, fatta eccezione per l'abulico Jose Gonzales e la chanteuse Sophie Zelmani, che - complice l'innamoramento del buon Callieri - ha trovato spazio anche su queste pagine. Nicolai Dunger potrebbe colmare questo vuoto. Già, potrebbe. Non fosse per quella idiosincratica erraticità che lo ha portato in 14 anni (e 16 album) a tentare tutti i sentieri pericolanti e oscuri della sua ispirazione scontrosa, ignorando troppe volte quella capacità di tenere in equilibrio jazz e folk, gioia e intimismo che negli esiti migliori lo ha visto percorrere sicuro le vie astrali tracciate da Van Morrison.

L'avesse inciso un nostro connazionale, un album come Soul Rush (2001), gli avrebbero intitolato una via - probabilmente dalle parti di Gallarate - e potrebbe vivere di gloria. Lui invece, dopo avere frequentato Will Oldham, Calexico e Mercury Rev, è andato a chiudersi nei suoi deliri free jazz, con una serie di dischi ardui e sperimentali che sono culminati nel progetto A Taste of Ra (tre album che seguono le rotte tra le stelle di Tim Buckley, tra il 2005 e il 2007). Ora - dopo avere sistemato il conto in banca grazie alla Volvo, che ha usato la sua Something in the Way in uno spot - sembra essere tornato coi piedi a terra, voglioso di esercitare nuovamente la voce - e che voce: uno strumento lanciato nello spazio, come nella migliore tradizione dei cantautori "astrali" - all'interno delle strutture tradizionali di vere e proprie canzoni. E' musica che ha le sue scoperte radici nel Van Morrison più bucolico, quello che si imbrattava con il miele di Tupelo, così come nel folk di Shawn Phillips e di un altro Tim, Hardin.

L'icasticità del titolo, Play, ci invita subito a godere di quest'opera nella sua concretezza sensoriale, senza cerebralismi: dall'iniziale Heart and Soul, cadenzata da un intenso mulinare di chitarre e percussioni, alla festa soul celtica in odore di Waterboys della conclusiva Many Years Have Passed, questo disco è un giubilo dei sensi, una celebrazione della carnale misticità della musica. In mezzo c'è spazio per il folk-pop di Crazy Train, la brusca dolcezza di Tears In A Child's Eye - duettata con Nina Persson degli A Camp (ed ex- Cardigans: nessuno è perfetto...) -, la danza tra i boschi di Can You, la frenesia da gospel mancato (ci sarebbe voluto un coro) di Time Left to Spend, l'arpeggiata semplicità di Girl With the Woolen Eyes. Prodotto da Staffan Andersson, Play più che un disco è una porta aperta sull'intrigante mondo di un autore tutto da esplorare.
(Yuri Susanna)

www.myspace.com/nicolaidunger
www.fargorecords.com



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