Nicolai Dunger è un mistero ben conservato tra i ghiacci svedesi.
La terra che ci ha regalato simpatiche nefandezze come gli Abba (praticamente
la versione scandinava dei Ricchi e Poveri - ed evitiamo per pudore di menzionare
i Roxette) ma anche le visioni oscure degli Opeth e il post-hardcore dei formidabili
Refused - per non parlare dei numerosi contributi in campo indie di questo ultimo
decennio (Jens Lekman su tutti, ma vanno ricordati almeno Peter Bjorn & John e
Stina Nordenstam) - la Svezia, dicevamo, non ha partorito figure di pari peso
nell'ambito dei folksinger più orientati al roots, fatta eccezione per l'abulico
Jose Gonzales e la chanteuse Sophie Zelmani, che - complice l'innamoramento del
buon Callieri - ha trovato spazio anche su queste pagine. Nicolai Dunger potrebbe
colmare questo vuoto. Già, potrebbe. Non fosse per quella idiosincratica erraticità
che lo ha portato in 14 anni (e 16 album) a tentare tutti i sentieri pericolanti
e oscuri della sua ispirazione scontrosa, ignorando troppe volte quella capacità
di tenere in equilibrio jazz e folk, gioia e intimismo che negli esiti migliori
lo ha visto percorrere sicuro le vie astrali tracciate da Van Morrison.
L'avesse inciso un nostro connazionale, un album come Soul Rush (2001), gli avrebbero
intitolato una via - probabilmente dalle parti di Gallarate - e potrebbe vivere
di gloria. Lui invece, dopo avere frequentato Will Oldham, Calexico e Mercury
Rev, è andato a chiudersi nei suoi deliri free jazz, con una serie di dischi ardui
e sperimentali che sono culminati nel progetto A Taste of Ra (tre album che seguono
le rotte tra le stelle di Tim Buckley, tra il 2005 e il 2007). Ora - dopo avere
sistemato il conto in banca grazie alla Volvo, che ha usato la sua Something in
the Way in uno spot - sembra essere tornato coi piedi a terra, voglioso di esercitare
nuovamente la voce - e che voce: uno strumento lanciato nello spazio, come nella
migliore tradizione dei cantautori "astrali" - all'interno delle strutture tradizionali
di vere e proprie canzoni. E' musica che ha le sue scoperte radici nel Van Morrison
più bucolico, quello che si imbrattava con il miele di Tupelo, così come nel folk
di Shawn Phillips e di un altro Tim, Hardin.
L'icasticità del titolo,
Play, ci invita subito a godere di quest'opera nella sua concretezza
sensoriale, senza cerebralismi: dall'iniziale Heart
and Soul, cadenzata da un intenso mulinare di chitarre e percussioni,
alla festa soul celtica in odore di Waterboys della conclusiva Many
Years Have Passed, questo disco è un giubilo dei sensi, una celebrazione
della carnale misticità della musica. In mezzo c'è spazio per il folk-pop di Crazy
Train, la brusca dolcezza di Tears In A Child's
Eye - duettata con Nina Persson degli A Camp (ed ex- Cardigans:
nessuno è perfetto...) -, la danza tra i boschi di Can
You, la frenesia da gospel mancato (ci sarebbe voluto un coro) di Time
Left to Spend, l'arpeggiata semplicità di Girl
With the Woolen Eyes. Prodotto da Staffan Andersson, Play più che un
disco è una porta aperta sull'intrigante mondo di un autore tutto da esplorare.
(Yuri Susanna)