Se è vero - e non vi sono ragioni per dubitarne - che The Big To-Do
è stato concepito in buona parte sulla strada, durante l'ultimo anno speso intensamente
nel tour di Brighter
than Creation's Dark, allora si spiega con facilità il ritorno dei
Drive-By Truckers alla livida sostanza elettrica dei loro primi lavori,
persino ad un certo macabro sarcasmo nelle liriche. L'effetto di stordimento che
la tripletta iniziale rovescia sull'ascoltatore - dalla traboccante liricità di
Daddy Learned to Fly passando per lo spaziale
country rock di The Fourth Night of My Drinking fino
a quella Birthday Boy che suona già come un
classico di Mike Cooley - è esattamente quello di un repentino ritorno di fiamma,
o quanto meno di uno necessario (ma forse sbrigativo) passo nella direzione del
nuovo rock'n'roll sudista a cui giustamente la band di Athens è stata consacrata.
Questa tuttavia è soltanto una faccia della medaglia, quella di un lavoro che
pur sostituendo la titolarità dell'etichetta (dalla New West alla ATO di Dave
Matthews) conserva tutte le caratteristiche (e i difetti) che la carriera dei
DBT ha evidenziato in tempi recenti.
È un saliscendi di ispirazione
The Big To-Do, un disco generoso (ma per fortuna più conciso del solito) che segue
gli istinti del momento, distanziando però il songwriting dei singoli protagonisti.
Si affanna Patterson Hood a descrivere il lavoro svolto con il fido Dave
Barbe nei Chase Park Transduction in Georgia come una sorta di grande famiglia,
dall'intesa immediata: tirate le somme questa irrefrenabile voglia di mettere
ogni idea in musica (si vocifera che con le 25 canzoni uscite dalle session in
questione sia già pronto un nuovo episodio per l'autunno) sacrifica i Drive-By
Truckers ai lavori forzati, facendo scemare l'ispirazione. Mike Cooley
difatti è oggi più che mai evanescente, donando il riff alla Chuck Berry di una
rimasticata Get Downtown e chiudendo il sipario
con le confessioni (ormai è un padre di famiglia, tre piccoli in giro per casa)
di Eyes Like Glue. Non sono le migliori uscite
del suo catalogo va detto e se vi aggiungiamo la solita sensazione di inadeguatezza
del songwriting di Shonna Tucker (imbarazzante in (It's
Gonna Be) I Told You So e solo romantica e impacciata con You
Got Another), il disco comincia a scricchiolare, non trovando quella
stabilità che quanto meno sotto l'aspetto dei testi e dell'immaginario era riuscito
a garantire Brighter than Creation's Dark.
Un peccato, perché questa
impazienza e questa abbondanza di incisioni rischia di far passare in secondo
piano canzoni validissime, frustate all'american dream quali This
Fucking Job, racconti in nero per cui i DBT continuano a descrivere
la coscienza sporca della loro nazione, a tratteggiare quadretti di squallida
vita nel Deep South (The Wig He Made Her Wear,
Drag the Lake Charlie), quasi dovessero scrivere
la colonna sonora della recessione americana. In tal senso Patterson Hood sembra
essere indiscutibilmente al centro di questo album: sono le ceneri del rock'n'roll
in After the Scene Dies e la stellare pedal
steel di John Neff in Santa Fe a risollevare
le sorti un po' compromesse dei suoi compagni, dando l'impressione che i Drive-By
truckers siano colti in un momento di passaggio non ancora meglio definito. Per
tali motivi The Big To- Do è con ogni probabilità il miglior "disco solista" di
Patterson Hood, ma non esattamente un gioiello che brilla nella collezione dei
Drive-By Truckers. (Fabio Cerbone)