Esorcizzando un travaglio personale che lo aveva messo letteralmente con
le spalle al muro - un serio intervento al cuore e una lunga convalescenza che
ha richiesto anche ingenti aiuti economici di fans e amici per sostenere le spese
mediche - Peter Case si è rifugiato nell'amore di sempre, il blues, uscendo
allo scoperto con il disco più spiritato ed essenziale della sua più recente produzione.
Un ritorno di fiamma che sembra contraddire all'apparenza il periodo sabbatico
di riposo e recupero delle forze: in Wig! Peter Case appare infatti
combattivo, veemente, spronato da una energia inedita che lo riporta alla baldanza
"garage" dei primi anni con Nerves e Plimsouls, semplicemente barattando un po'
della spaccona e irriverente immagine rock'n'roll del tempo con una punta di radici
che lo conduce verso le bettole del sud. Un buon modo per rinascere e rigenerarsi,
per un autore che in verità non era mai scomparso, ma al quale si era sempre imputato,
un poco ingiustamente, di non avere più bissato la cristallina bellezza dei suoi
primi lavori solisti da moderno folksinger.
Il blues è tuttavia rimasto
come traccia più o meno esplicita e fra tributi a Mississippi John Hurt e Sleepy
John Estes, mancava solo una riedizione elettrica e gracchiante di questi suoi
affetti. La tocca con mano Peter Case, aggiungendovi una coltre di sporcizia garage
rock, con l'essenziale apporto di un trio che ha nelle chitarre di Ron Franklin
e nei tamburi del redivivo D.J. Bonebrake (The X) il motore sufficiente
per abbracciare il sulfureo e posseduto mood di Dig What
You're Putting Down e House Rent Jump,
boogie blues degno di un afoso e affollato juke joint. Il Peter Case che ironizza
sulla malattia e i tempi mesti della sua vita e del mondo che lo circonda (lo
swamp di Somebody Told the Truth) non sceglie
l'opzione triste e malinconica di un folk raccolto e intimo, guarda piuttosto
dall'altra parte anche rispetto alle sue più interessanti uscite acustiche dell'ultimo
decennio (Flying Saucer Blues, fateci un pensiero se vi capita a tiro), preferendo
insomma l'autenticità e il nerbo di un punk blues che ringhia nelle note della
sua armonica e di una voce che non appare per niente affaticata. Banks
of the River sfodera un piano a trascinare la danza di un blues lascivo,
mentre in New Old Blue Car e nella frenesia
beat di Ain't Got No Dough rispuntano persino
i vecchi amori mai sopiti ai tempi dei Nerves, soltanto riletti con la saggezza
di una lunga carriera e un briciolo di tradizione in aggiunta.
La sostanza
di cui sono fatte queste scudisciate dalla cantina di casa è la stessa che animava
la sua gioventù: sentitelo riportare in vita i Byrds e i 13th Floor Elevators
per le vie traverse di un folk rock degno della raccolta Nuggets in The
Words in Red, oppure farsi un giro nell'inferno del Mississippi, tra
le ombre di Robert Burnside e Junior Kimbrough, nell'ossessiva atmosfera down
home di Colors of Night, altro tour de force
in cui l'essenzialità delle chitarre e il canto spasmodico ci fa rotolare in una
notte minacciosa. E se qualcuno avesse voglia comunque di un'oasi acustica ci
sono sempre le lezioni di storia in Thirty Days in the
Workhouse (a firma Leadbelly), campo di prova per la tecnica di Case,
da sempre abile chitarrista innamorato di quello stile folk blues che ha imparato
dai maestri del blues rurale e che oggi mette in pratica chiudendo con la tensione
nuda e cruda di House Rent Party. Non era
mai scomparso alla nostra vista, ma certo non ci saremmo aspettati questa vampata
di entusiasmo. Una lezione di vita, oltre che un disco assai ispirato. (Fabio
Cerbone)