Basia
Bulat
Heart of my Own
[Rough Trade/ Self 2010]
Il miglior modo di realizzare un secondo disco sarebbe quello di saltare
direttamente al terzo probabilmente, evitando dunque il confronto, il dover soddisfare
le attese e confermare quei complimenti che solo le opere d'esordio sanno captare.
Ma non si può, e quindi mirino puntato sulla canadese Basia Bulat, solo
due anni fa "next big thing" del nuovo folk femminile con l'esordio
Oh My Darling, non certo un capolavoro, ma sicuramente il classico bel disco scritto
durante un'intera adolescenza e messo a fuoco a 23 anni con tanta inesperienza
in dotazione ma con quel sacro fuoco artistico che ci anima nei nostri anni verdi.
Esattamente quello che non sono le canzoni di Heart Of My Own, secondo
capitolo scritto sulla strada durante tre anni passati a raccogliere consensi,
un'opera di un'artista arrivata, non di una che vuole arrivare. Cambia tutto quindi,
non magari lo stile, sempre legato a quella matrice canadese che si rifà a Joni
Mitchell (facile tirarla in ballo quando praticamente ogni canzone sembra pensata
con Blue che gira nel lettore accanto) o al primissimo Bruce Cockburn innamorato
della sua chitarra acustica.
Prodotto ancora una volta da Howard
Bileman (Arcade Fire tra i suoi assistiti), l'album presenta dodici brani
dall'ossatura prettamente acustica, con grande fiducia nella voce di Basia, un
po' Tracy Chapman (in Run la ricorda proprio
molto), un po' se stessa, e un evidente tentativo di continuare a far risaltare
le canzoni a discapito della spettacolarità. E il gioco nelle prima fasi sembra
anche funzionare, se è vero che Go On è una
partenza che ben dispone e Sugar And Spice
arriva poco dopo a cercare di piazzare il colpo del knock-out. Ma proprio quando
il disco dovrebbe salire di tono, la Bulat cade nella propria autoindulgenza (suona
lei la maggior parte degli strumenti), infilando una serie di brani senza troppa
spina dorsale (Heart Of My Own), se non proprio
bruttarelli (If Only You) o noiosi (Sparrow).
E' l'empasse da secondo album evidentemente, quello scarso fluire di note e parole
che rende molte di queste canzoni legnose e poco memorizzabili, e quando poi in
The Shore si addormenta sui tasti di un piano,
ci sembra davvero di capire quale sia il male che attanaglia troppe produzioni
odierne.
Fortuna nostra che la ragazza riesce comunque ad uscirne, perché
in ogni caso in molte occasioni dimostra talento e savoir faire, fino a quando
con Walk You Down infila anche il piccolo
capolavoro, e visto che siamo arrivati alla traccia 11, la reazione naturale è
quella di dire "ma non poteva dirlo prima?". In ogni caso il tentativo di restyling
e ingrassamento della formula con qualche tastiera e fiato in più non ha sortito
effetti significativi, Heart Of My Own è solo un discreto seguito di un bel disco,
e non potendo contare sull'effetto novità e neppure sull'accattivante copertina
dell'esordio, è facile immaginare che non farà lo stesso rumore. (Nicola
Gervasini)