The
Deep Dark Woods
Winter Hours
[Black
Hen/ Rounder 2009]
Suoni, suggestioni, sensibilità musicale ruotano attorno a quelle poche
ma inequivocabili intuizioni che ci hanno fatto innamorare di uno stile,
di quella scuola di rinnovamento del country rock e della canzone folk
d'autore che ha saputo ridare sentimento al lungo cammino compiuto dalla
tradizione. I canadesi Deep Dark Woods aggiungono di tasca propria
accenti malinconici, invernali e nevosi come il clima generalmente associato
ai loro luoghi di provenienza, quella Saskatoon sospesa fra ponti e acque
ghiacciate sulle quali le ballate della band sembrano sposarsi in un'unica
visione. Non rappresentano alcuna nuova frontiera dell'alternative country
i Deep Dark Woods, semplicemente tracciano canzoni di un'eleganza e calore
tali che ti accolgono con una miriade di carezze fra steel e violini,
imbastendo walzer d'altri tempi, colori tenui tali e quali alla copertina
del loro Winter Hours, secondo lavoro per la Black Hen che
non poteva davvero scovare titolo migliore.
Abitano infatti le ore più elegiache e assopite del freddo dicembrino
queste composizioni, avviluppate in liriche semplici, a volte tentate
da un'anima scura e ricca di angoscia, altre invece propense alla leggerezza,
in ogni caso attraversate costantemente dal canto al velluto di Ryan
Boldt, autore e attore principale dei Deep Dark Woods. Con lui Chris
Mason al basso, Lucas Goetz alla batteria e Burke Barlow alle chitarre,
quartetto di base che richiama gli spazi d'ombra del country rock contemporaneo,
dall'umore uggioso dei Willard Grant Conspiracy evocato nell'iniziale
Farewell alla sontuosità di certi
Walkabouts invaghiti della southern music (Now
I Can Try, As I Roved Out,
The Gallows, tutte imperniate su tonalità
raccolte e pastose), per ripiegare spesso sugli accenti rurali che furono
caratteristica degli albori del genere (nei ricami hillbilly del fiddle
di Nancy ricordano i misconosciuti
Wagon).
Winter Hours, prodotto da Steve Dawson (cesellatore di suoni e
strumentista aggiunto con banjo, ukulele, mellotron e chitarre) negli
studi di Vancouver, potrebbe seriamente rappresentare il disco che aprirà
le porte degli estimatori, noi per primi, di un linguaggio che meno si
complica e più si avvicina al cuore stesso della sua essenza: se il precedente
Hang Me, Oh Hang Me li aveva rivelati al pubblico di casa, con una nomination
ai locali Western Canadian Music Awards, il nuovo episodio desterà le
passioni sopite di chi cerca un luogo intimo e fuori del tempo, dove farsi
prendere per mano da una melodia dolcissima (accade nella title track,
walzer corale e sussurrato), da un dimenticato traditional del folk inglese
(When First into This Country), da
qualche scherzoso gioco di specchi con i luoghi più comuni del genere
(Polly).
Alla fine però sui Deep Dark Woods non è il caso di passare un colpo di
spugna, magari distratto e assente: Winter Hours possiede una grazia d'esecuzione
che ha qualcosa in più da offrire rispetto alla media di chi affolla questi
paesaggi musicali. Nello specifico si chiamano All
the Money I Had Is Gone, quintessenza del suono alt-country
fra echi e incanti di acustiche e steel guitar,
The Birds on the Bridge, sognante ballata formata dal bassista
Chris Mason che culla per sei lunghi minuti, The
Sun Never Shines, organo che avvolge in una coperta soul ed
epica inquietudine rock che monta fino a invocare lo spirito del più illustre
conterraneo Neil Young. Da sole bastano a rendere Winter Hours il disco
da mettere nel vosotro personale granaio, in attesa del prossimo autunno
musicale. (Fabio Cerbone)