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William
Elliott Whitmore
Animals in the Dark
[Anti/
Self 2009]
Lasciatosi alle spalle quella che potremmo definire una sorta di trilogia
southern folk, asciutta, spoglia e tremendamente asservita al sapore acre
della sua terra, un piccolo appezzamento nella Lee County, Iowa, sulle
rive del Mississippi, William Elliott Whitmore ricomincia esattamente
da capo: la contraddizione, o se volete la coerenza del personaggio, a
seconda dei punti di vista, è proprio racchiusa in questa sua autarchia
musicale, che in Animals in the Dark sembrerebbe presentarcelo
con una verve più vivace e disposta all'incontro con altri musicisti,
ma in realtà non si sposta di un millimetro dalla sua visione ancestrale
dell'american music. Whitmore rimane ancora un'anima perduta, un ragazzo
cresciuto nella quiete della fattoria ereditata dal padre, dove ha costruito
il suo piccolo studio e si è rintanato con banjo e chitarre per rivoltare
il terreno del folk, del country più rurale e acerbo, del gospel bianco,
mettendo in bocca parole pesanti come macigni.
In apparenza il passaggio dalla Southern alla più agguerrita e quotata
Anti dovrebbe anche sancire la svolta "elettrica", e su questo giocano
non poco anche le note biografiche, ma avendo seguito i suoi passi fin
dagli esordi non possiamo non notare uno scarto in fondo praticamente
impercettibile: spuntano, è vero, ritmiche sceletriche, qualche organo
a riempire l'aria, ma giunti alla radice del suono Whitmore risulta unicamente
raffigurato dalla sua voce, da quel canto straziato e profondo che pare
appartenere ad un fantasma sbucato dall'Anthology of Folk Music di Harry
Smith. Saprà ammaliare dunque tutti coloro che cercano nel songwriting
la magia, il mistero, l'affascinante dipanarsi di una voce, ma difficilmente
condurrà sulla sua strada nuovi adepti che non aprezzino ballate così
scarne e sincere.
Perché alla straniante accoppiata fra batteria da marching band e intonazione
gospel di Mutiny, il testo più politico
e arrabbiato che abbia mai scritto il nostro sullo stato della nazione
americana, allo sbuffare incalzante di Old Devils,
al dolce e classico carattere soul della crescente preghiera di There's
Hope for You o della gemella Let The
Rain Come In, corrispondono altrettante discese nella purezza
che ha sempre contraddistinto Whitmore: ecco allora sbucare la solitaria
Who Stole the Soul, il country blues
ossuto di Johnny Law, fangoso come
le acque del Mississippi, o l'autobiografica Lifetime
Underground, condotta dal banjo, ode alla sua vita errabonda
di musicista, busker trascinato a suonare per la gente in giro per il
mondo. Spirito libero quello di Whitmore, una maschera d'altri tempi che
non ha timore di intonare in chiusura una gioiosa, e quindi contraddittoria
fin dal titolo, A Good Day to Die:
ha il corpo segnato dai tatuaggi di un vecchio marinaio, la voce e forse
anche l'anima di uno schiavo del deep south, ma prova a farsi largo con
le sue ballate in questa grande, confusa modernità.
(Fabio Cerbone)
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