Mi piacerebbe avere una macchina del tempo e trasportare la marea di "homemade
freak-folker" che ha invaso questi anni 2000 direttamente negli anni '70,
quando per pubblicare un disco si doveva per forza bussare alle porte
di qualche label. Mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman
alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello,
una strategia discografica e i mille buoni/cattivi consigli che si aggiravano
nei corridoi delle etichette discografiche. Mi piacerebbe così capire
la vera portata storica di un disco come questo Year In The Kingdom,
il suo settimo album in quattro anni e già il secondo del 2009 (dopo l'abbastanza
acclamato Vacilando Territory Blues), e tutto questo senza stare a contare
gli EP. Vorrei dunque poter confrontare queste secche nove piccole gemme
con i grandi dischi di folk d'autore del tempo, scoprire dove sopravvalutiamo
il passato e dove sottovalutiamo il presente, forse per abitudine, forse
per amore dei grandi nomi o semplicemente per mera constatazione di una
realtà.
Se non fosse che non ne esistono quasi più, potremmo dire che J.Tillman
sembra un perfetto prodotto di un ufficio marketing moderno: prendi un
simil-figlio dei fiori, deprimilo quanto basta perché non si metta a cantare
con troppa gioia, fagli crescere una lunga barba d'ordinanza, evita che
si diletti troppo con una band fatta di chitarre elettriche e batterie
pesanti, e hai il perfetto eroe indipendente dei nostri giorni, quello
che piace alla nuova intellighenzia di critici musicali. Non essendo però
io uno scienziato pazzo degno di Ritorno al Futuro, mi accontenterò di
paragonare questo disco agli ultimi titoli di Bonnie Prince Billy, uno
che sta capendo che i tempi sono maturi per un passo avanti, che è vero
che le grandi canzoni stanno in piedi da sole, ma che solo l'arrangiamento
giusto permette che vengano riconosciute in tutte il loro valore. Qui
abbiamo l'esempio più evidente: Tillman, armato di chitarra acustica e
vocione gutturale, soffre sulle proprie parole con innegabile intensità,
e laddove la title track si adagia in atmosfere e melodie minacciose,
brani come Earthly Bodies o Howling
Light sono soavi melodie alla Iron & Wine che possono trovare
una loro collocazione in certi momenti della nostra giornata (se non vi
fate magari troppo sconvolgere dalle visioni mistiche della prima).
Ma è per piccoli capolavori come There Is No
Good In Me, e ancor più Crosswinds,
splendido brano che getta anche una luce di speranza in mezzo a tanto
buio ("anche fino all'ora più scura, c'incontreremo dove ci siamo promessi
di rincontrarci"), vale a dire episodi impreziositi da cori e soluzioni
strumentali più complesse, che comincio a pensare che anche Tillman sia
pronto a "costruire" i suoi dischi perché possano essere ritenuti grandi
da tutti. E guai a chi riterrebbe questo come un cedimento alle lusinghe
del grande pubblico: in fondo anche nella discografia di Nick Drake, accanto
all'essenziale Pink Moon, si trovava il barocco e - diciamolo pure - "commercialmente
pensato" Bryter Layter, che ha fatto forse meno scuola, ma risulta ugualmente
memorabile. (Nicola Gervasini)