Leo
Rondeau
Down at the End of the Bar
[Leo Rondeau 2009]
Lo scatto in copertina potrebbe far pensare ad un eroe perduto di quell'epoca
fatta di cowboy "progressisti" e ribelli nashvilliani, uno storyteller
texano dal destino sfortunato, che si muoveva nell'ombra dei vari Guy
Clark, Townes Van Zandt o Terry Allen. Non siamo in fondo lontani dalla
realtà, anche se Leo Rondeau è un "vagabondo"
sulla trentina che proviene dal North Dakota e guarda caso ha messo radici
ad Austin. Non c'è che dire, ha trovato la casa più accogliente
per le sue strascicate ballad, il suo country rock distillato artiginalmente
con un suono a metà fra il West e la vecchia mai dimenticata Grand
Ole Opry. All''indomani del debutto, Bangs, Bullets and the Turtle Mountains
(2007), si è messo in cammino per la Mecca dell'Americana, raccogliendo
musicisti più o meno conosciuti agli angoli dei club cittadini
(ci sono la steel e il dobro di Cindy Cashdollar, la batteria di
Lisa Pankratz, entrambe già nelle Guilty Women di Dave Alvin, oltre
alle chitarre di Jim Stringer e al fiddle di Ricky Turpin) e imbastendo
un disco, Down at the End of the Bar, che ha il sapore aspro
e beffardo del migliore country d'autore.
I punti di riferimento dunque non sono affatto sbagliati, anche se al
piatto dei ricordi e delle riminescenze andrebbero aggiunte la pigrizia
e l'ironia di John Prine e magari anche un pizzico della follia di Kinky
Friedman: per uno che scrive di pestaggi in Louisiana (l'irresistibile
walzer No Friend to Lousiann in apertura);
di una grande bellezza nera conosciuta a Pensacola ("che mi abbracciava
come un boa constrictor", Weary Owls);
di ragazze con padri alcolizzati e madri a giocarsi tutto al bingo ("era
una fumatrice passiva ad un anno e di prima mano a tredici anni",
She'll Get the Advantage); per uno
capace di descrivere gli imbarazzi di una coppia con la metafora di un
elefante ("c'è un elefante in questa stanza/ e si sta portando
via tutto lo spazio", Elephant in This Room)
gli accostamenti di cui sopra sono d'obbligo e assai pertinenti.
Leo Rondeau ci gioca
sopra senza alcuna malizia, presentandosi trasandato nel look e in quella
voce che risulta straziante e indolente: se amate le belle maniere e i
colpi di fioretto, la country music di Rondeau non fa al caso vostro.
Non è un nuovo tradizionalista con la faccia pulita, piuttosto
un hobo in piena regola che sfrutta il suo andirivieni lungo le direttrici
dell'America perduta per inventarsi assonnati walzer da fondo di bottiglia
(la stessa Down at the End of the Bar),
immaginifici honky tonk (Rhinestoes),
invocando spesso il sostegno di una seconda voce femminile che lo sorregga
nella sua "sbronza" (You Ain't for
Me e Blues Came Today con
Cary Ozanian e Brannen Leigh), infilandosi fra uno swing in puro New Orleans
style (la deliziosa Rapture con tromba
e clarinetto) e una ballata country&western che risveglia gli spiriti
del border e si apre sulle note di una tromba mariachi (la sofferta, stonata
Had I Known). Talenti di quelli grezzi,
spontanei e perciò ancora più apprezzabili, segnatevi il
nome prima che scompaia da qualche parte sulla strada. (Fabio Cerbone)