Richmond
Fontaine
We Used to Think the Freeway
Sounded Like a River
[Decor/
Goodfellas
2009]
I Richmond Fontaine ci sono riusciti, sono riusciti insomma a bilanciare
mirabilmente quella stridente, quasi ossessiva dualità che da sempre caratterizzava
la loro musica: da un parte il taglio letterarrio, minimalista e spietato
di Willy Vlautin, uno dei migliori sceneggiatori in musica della
sua generazione, dall'altra lo scheletrico suono alternative country,
dalle rifrazioni desertiche, della band. Un incontro che spesso restava
monco, sospeso, a suo modo affascinante proprio per questo senso di instabilità,
sempre ad un passo dalla forma compiuta. Per qualcuno We Used to
think the Freeway Sounded Like a River (un romanzo fin dal titolo…)
rappresenterà il disco più addomesticato della loro carriera, persino
quello più "accessibile", in realtà appare soltanto il più meditato e
completo, quello dove la disperazione americana dei personaggi narrati
da Vlautin si accompagna ad una musica che suona livida più che mai, brillante
nella sua cruda e intensa sensibilità rock.
Quest'ultimo, sia ben chiaro, ha il sapore della polvere, dei neon dei
motel e dei casinò dove si è sedimentata la vita artistica e non solo
dei Richmond Fontaine, ai margini del sogno americano, lo stesso che non
è mai esistito per gente alla deriva, sconfitta, desiderosa soltanto di
affogare o nascondersi, fra gioco, alcol, violenza, pronta però ad un
incontro, accogliendo un'altra anima disfatta con la quale condividere
la discesa. The Pull è simbolica,
una sceneggiatura in piena regola, storia di un pugile senza arte né parte
sottolineata da quel sound desertico di cui la band è ormai maestra (e
che ritorna nella dolcissima Ruby and Lou
o ancora in certi raccordi strumentali di estrema suggestione). L'impegno
con cui vanno lette queste ballate dal grande nulla americano è strettamente
collegato alla complessità dello stesso Vlautin. Vita difficile e tormentata
la sua, tanto che We Used to think the Freeway… prende forma sul finire
del tour di Thirteen
Cities, precedente lavoro dal carattere più "solare" ma in
definitiva di transizione: Willy Vlautin perde la madre e subisce in seguito
un serio stop artistico a causa di problemi fisici. L'introspezione non
gli è mai venuta meno e dunque riflette, rimugina, scrive materiale per
un terzo romanzo (il secondo è ancora inedito dalle nostre parti, dopo
Motel Life) e trova infine la chiave per aprire stanze autobiografiche.
Accade qui palesemente nella title track, cullata da un piano distante
e chitarre centellinate a dovere, o ancora nella splendida melodia border
(con tanto di fiati in salsa mariachi) di The
Boyfriends e verso la chiusura, con la scura litania di Two
Alone, esempio di quel talkin' nervoso e ricco di tensione
in cui la band costruisce più silenzi che note. Evidente come la steel
di Paul Brainard abbia questa volta abbandonato il centro della
scena: l'ha sotituita con un pianoforte nostalgico e nascosto, facendosi
abbracciare dalle chitarre dei compagni Dan Eccles e dello stesso Vlautin.
L'effetto è quello da una parte di un alt-country rancoroso, libero di
abbandonarsi letteralmente agli strali elettrici di 43
e della abbagliante Lonnie, dall'altra
di un folk rock sorprendentemente limpido per i Richmond Fontaine, che
in You Can Move Back Here potrebbero
persino richiamare i REM, mentre in Maybe We
Were Both Born Blue riescono a farti ingogiare il dolore e
la solitudine con feroce bellezza. I Richmond Fontaine sono cresciuti
si, ma non hanno smussato più di tanto gli spigoli: la loro anima vaga
ancora in quella hard life americana dove non puntano mai i riflettori.
(Fabio Cerbone)