Dave
Rawlings Machine
A Friend of a Friend
[Acony
2009]
Il singolo Suedhaed di Morrissey era effettivamente sia su Viva
Hate che su Bona Drag, per cui David Rawlings e Ryan Adams avevano
entrambi ragione da vendere in quella discussione che apriva l'album Heartbreaker
di quest'ultimo. Ancora oggi il nome di Rawlings rischia di essere consegnato
alla storia quasi solo per quel piccolo dibattito, oppure (ma solo per
i più scafati conoscitori di roots-music) come "il fidato chitarrista
di Gillian Welch". Proprio come recita il titolo di questo suo primo disco
solista, A Friend Of A Friend, l'amico di un amico appunto,
non il protagonista, ma sempre quello accanto, per non dire il session
man rassegnato a vivere nell'ombra decantato già nel 1966 dai Kinks. Rawlings
è tutto ciò, e lo rimarrà anche dopo questo debutto, licenziato con una
sigla (Dave Rawlings Machine) che nasconde poi solo se stesso e
la sua inseparabile chitarra, e destinato a rimanere feticcio per incalliti
amanti della tradizione e del gusto del suono e del suonare.
Lui è un mix di radici, tecnica e sound, uno che intinge il suo songwriting
nella tradizione musicale dei monti Appalachi e lo rende splendido e cristallino
con il suo inconfondibile tocco, spesso giocato sulla tecnica del fingerpicking,
lo stesso che ha reso grandi i quattro dischi licenziati da Gillian Welch
e che abbiamo sentito anche nei dischi dei Bright Eyes e Robyn Hitchcock
(ricordate l'americanofilo Spooked?). Si potrebbe considerare questo come
il nuovo disco della coppia Rawlings-Welch, visto che l'impatto acustico
è più o meno lo stesso, e semplicemente qui i due si scambiano i ruoli,
con Gillian impegnata a fare da seconda voce, ma sarebbe forse togliere
ancora una volta il merito ad un artista che sta dimostrando di poter
tranquillamente camminare con le proprie gambe. A ben guardare questo
album è un'accozzaglia di materiale di vario genere, non ha l'aria di
essere un progetto definito, quanto un raccoglitore d'idee sparse nel
tempo. Eppure era doveroso che David si riappropriasse di quella To
Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High) che scrisse a suo tempo
per Ryan Adams, giusto per trasformarla in un coinvolgente e balzellante
bluegrass tutto violini e banjo, oppure che rivoltasse I
Hear Them All, uno dei tanti brani prestati agli Old Crow Medicine
Show per il loro secondo album Big Iron World, risolvendola in due soffertissimi
minuti di splendido lamento folk.
E ancora meglio fa l'iniziale Ruby,
pura esaltazione di vocalizzi e melodie da West Coast anni settanta, uno
di quegli incipit che ti fanno capire che "ok, ci siamo, qui succede qualcosa
di importante stavolta". E ancor di più offre la ripresa di Method
Acting dei Bright Eyes annata 2002, straziante e stravolta,
interrotta a metà dall'irrompere di un inconfondibile "He came dancing
across the water" che trasforma la sofferenza di Conor Oberst nientemeno
che in Cortez The Killer di Neil Young, con la stessa naturalezza
e inevitabilità con cui i Cowboy Junkies trasformarono un loro brano nel
classico Blue Moon senza interrompersi. Dieci minuti buoni che valgono
anche da soli l'acquisto, un tour de force di acustiche perfette e vocalità
intensa che rimarrà nei nostri lettori per anni, ne siamo già sicuri.
Peccato che nella seconda parte ci sia tempo per tirare il fiato, e Rawlings
perde leggermente in genio a favore di tutta la sua professionalità quando
affronta gli schemi traditional di Sweet Tooth,
il pigro bluegrass di How's About You,
il country di It's Too
Easy e i fiati da jug-band di Monkey
And The Engineer di Jesse Fuller. Dalla sua penna esce comunque
anche la superba Bells Of Harlem,
che chiude un disco che resterà nella memoria solo di chi ha capito che
spesso tra gli album delle figure secondarie si scovano gemme di primaria
bellezza. (Nicola Gervasini)