Grant
Lee Phillips
Little Moon
[Yep
Roc/ Audioglobe 2009]
Deve aver fatto bene, a Grant-Lee Phillips, l'esperienza di "menestrello"
televisivo nel serial Una mamma per amica (Gilmore Girls, USA, 2000-2007),
dove gli era affidato il compito di commentare, sottolineare o ironizzare
sui contenuti delle puntate tramite canzoni (sue o altrui) affrontate
col tono salace del troubadour che, aggirandosi chitarra a tracolla
per le vie del paese, ha finito col saperla lunga sulle cose della vita.
Lo avrà perlomeno aiutato a recuperare il senso artistico di un'avventura
musicale che, dopo le propaggini tardo-Paisley degli Shiva Burlesque e
la meteora luminosissima dei Grant Lee Buffalo, sembrava essersi attorcigliata
in una serie di album mai del tutto sbagliati ma nemmeno troppo convincenti.
Dalle ballate acustiche di Ladies Love Oracle (2000) alle soluzioni sintetiche
di Mobilize ('01) e dal raccoglimento rootsy di Virginia Creeper ('04,
il migliore del lotto) al vistoso calo d'ispirazione di Strangelet ('07),
passando per le cover irrisolte dell'inutile Nineeteneighties ('06), Phillips
ha vagabondato tra generi e progetti manifestando un affanno costante,
quasi condannato a esplorare tante strade diverse senza mai trovare quella
definitiva. L'artista che ha consegnato alle stampe Little Moon,
invece, si è sbarazzato dell'idea di racchiudere le mille deviazioni del
proprio talento in un contenitore omogeneo, sicché l'album, essendo costruito
su tante illuminazioni e spunti di estrazione a dir poco variegata suona
sì felicemente discorde, ma anche, al tempo stesso, risolto, efficace
e persuasivo come mai prima d'ora.
Buried Treasure, un tenebroso folk
d'altri tempi che ricorda i REM del periodo Reckoning, e Strangest
Thing, formidabile strizzata d'occhio al mainstream rockista
e solenne che fu dei Grant Lee Buffalo (rispetto ai quali perde per strada
qualche scarica di elettricità per guadagnare in verve psichedelica),
sono due tra i pezzi migliori che il Phillips solista o bandleader abbia
composto, e nondimeno, il pop da camera di una It
Ain't The Same Old Cold War Harry che omaggia contemporaneamente
Bob Dylan e Frank Sinatra, il rutilante folk-rock dell'iniziale Good
Morning Happiness o gli scossoni melodici della frizzante Seal
It With A Kiss, laddove posti a confronto con la doppietta
poc'anzi citata, non sfigurano affatto. Potrebbero invece non piacere,
agli appassionati di roots-music in senso stretto, i tromboni swing della
stralunata, bandistica The Sun Shines On Jupiter
o gli archi che appaiono nella maggior parte di queste canzoni, anche
(è il caso di Nightbirds e Older
Now, peraltro bellissime) in quelle dagli arrangiamenti più
scarni.
Ma si sarà anche capito che costoro, casomai non riuscissero ad accontentarsi
del drumming strepitoso di Jay Bellerose (un vero istrione del
nascondimento, se mi passate il termine), farebbero meglio a prendere
i dischi del Phillips odierno con la dovuta cautela. Per quanto mi riguarda,
i dodici brani di Little Moon e il loro confabulare sognante e favolistico
di viole e uccelli notturni, di segreti nascosti e piccole storie raccontate
dal vento, riconciliano con la grandezza sregolata di uno storyteller
la cui vena temevo definitivamente appannata. I nostalgici dei Grant Lee
Buffalo continueranno a vagheggiare un passato irripetibile, ma per tutti
gli altri, soprattutto per chi, magari faticosamente, ha imparato ad adeguare
i propri sogni alla realtà, ce n'è abbastanza per innamorarsi un'altra
volta ancora. (Gianfranco Callieri)