Elvis
Perkins in Dearland
Elvis Perkins in Dearland
[XL
recordings / Self 2009]
Dalla malinconia dilagante e da quell'inesorabile rimuginare sul tema
della morte che assediava l'esordio Ash
Wednesday al soffio bandistico di un funerale in stile New
Orleans, il passo sembra breve e inevitabile. Così il profluvio di trombe,
tromboni, clarinetti e ritmi da marching band che sbucano di tanto in
tanto in Elvis Perkins in Dearland (mandanmo in solluchero
quelli collocati esattamente a metà di Send My
Fond Regards to Lonelyville) continuano a ricordarci, in apparenza,
che Elvis è un "ragazzo triste" con una vita tormentata, da cui non poteva
che nascere un songwriting poetico e naif, infestato da fantasmi e piccole
rivelazioni. E tuttavia la strada non è compromessa a tal punto: oggi
c'è una band con la quale stringere un patto, un'atmosfera di complicità
maggiore che è nata sui palchi e nelle tournè degli ultimi due anni, un
suono più vispo che non rinnega il passato, ma bagnandosi nel grande fiume
del gospel, del soul, di una folk music che mette insieme senza colpo
ferire passato e presente, si fa più sgargiante, intervallando luci e
ombre attraverso tonalità meno oppressive.
È un disco che nasce da uno spirito comunitario Elvis Perkins in Dearland,
a cominciare dall'idea di intitolarlo esattamente come se fosse il frutto
di un lavoro di squadra: e lo è a tutti gli effetti, come lo stesso Elvis
Perkins ci tiene a precisare. "Più veloce e più giovane" di Ash Wednesday,
non necessariamente più superfiale, forse soltanto più leggero e desideroso
di mettersi in gioco. Ed è proprio qui che entrano in scena Brigham Brough
(contrabbasso, sax), Wyndham Boylan-Garnett (organo, chitarre, harmonium
e trombone) e Nick Kinsey (batteria, , banjo, clarinetto), comitiva assortita
di musicisti che ha saputo riprodurre in studio quella coinvolgente "accozzaglia"
percepita dal vivo: una piccola orchestrina che sembra rubare lo spirito
di una vecchia jug band all'angolo di una via di New Orleans e darla in
pasto al folk rock che fu del Village, scarabocchiandoci sopra qualche
accento Americana. Il declamatorio tono con cui Elvis Perkins apre le
danze in Shampoo è anche figlio di
questa tradizione, perché se da una parte cita apertamente gli spiriti
della folk music (Black is the Color of my True Love's Hair infilata
da qualche parte) e nell'armonica infonde la brezza di un Bob Dylan, dall'altra
parte si guadagna un suo stile, una sua personalità ormai definita dove
la depressione lascia il passo ad un briciolo di magia.
Non scambiatelo per il solito uggioso songwriter a leccarsi le ferite:
Elvis Perkins in Dearland, al traino dell'ottimo lavoro
di Chris Shaw in regia, scarta di volta in volta ai lati della prevedibilità,
volgendo ora alla irresistibile solarità pop di I
Heard Your Voice in Dresden, ora alla disarmante tenerezza
di 1 2 3 Goodbye, ora alla contagiosa
melodia che pervade Hey (con la seconda
voce femminile di Becky Stark dei Lavender Diamond) e soprattutto
la bislacca Doomsday, ballate guizzanti
fra trilli di pianoforte, fiati a profusione e battiti di grancassa. Il
garbo di un tempo, e l'amore mai nascosto per Leonard Cohen, è riservato
alla dolciastra Hours Last Stand,
mentre la tensione dark blues di I'll Be Arriving
è il solo momento un po' "agghiacciante" della scaletta, con quella manifesta
idea di rovistare nella oscura eredità del Sud e del gospel, atteggiamento
capace però di produre un piccolo capolavoro alla chiusura del sipario:
si tratta del walzer How's Forever Been Baby
ed è una delle canzoni più belle di questo 2009. (Fabio Cerbone)