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Austin
Lucas
Somebody Loves You
[Suburban
Home records 2009]
La voce più emozionante uscita dall'oscurità della moderna hillbilly music
sembra essere quella di Austin Lucas, un ragazzo con un'immagine
improbabile, una fisicità impacciata eppure capace di sprigionare un canto
celestiale. Una contraddizione in termini anche solo accostare una musica
di chiara ispirazione old time con la stretta contemporaneità, nondimeno
ci siamo talmente abituati in questi anni alla riscoperta delle proprie
radici culturali da parte di molti giovani autori americani, che forse
non sorprende più ritrovarsi faccia a faccia con un songwriter maturato
nell'estetica e nel suono punk hardcore e successivamente ritornato all'ovile,
fra le braccia di quelle ballate dall'anima folk e dal vestito country
che il padre gli aveva insegnato da piccolo. Con Austin Lucas, al secondo
atto della sua rinascita roots in Somebody loves You (l'esordio,
Putting The Hammer Down, risale a due anni prima), siede proprio il padre
Bob Lucas, già nei crediti di diversi dischi di Allison Krauss
e qui manipolatore di banjo, fiddle e percussioni, primo scorcio di un
ritratto di famiglia che vede coinvolta persino la sorella Chloe Manor
ai cori.
Avendo studiato per sei lunghi anni all'Indiana University Children's
Choir (Lucas è originario di Bloomington ed oggi risiede a Portland, Oregon),
mettendo in scena opere liriche e brani classici, Austin modella la voce
con un'intensità che si posiziona esattamente a metà strada fra la "bella
maniera" insita nel nobile canto e la passione dovuta a chi interpreta
folk song dall'età indefinita. La sorpresa è che si tratta di composizoni
tutte originali, seppure suonino come fossero sbucate da un vecchio vinile
a 78 giri, da una raccolta di anticaglie dell'american music scoperta
per caso da un rigattiere. C'è un senso di mistero e religosità racchiuso
in Somebody Loves You, Shoulders,
Fountains of Youth, nella solitaria,
intensa esecuzione di Resting Place,
fra le increspature di un suono disadorno e nonostante tutto assolutamente
compiuto e comunicativo: è lo stesso mistero che avvolgeva le voci ancestrali
della tradizione, ma senza copiarne il gesto, semmai adattandolo alle
speranze, alle paure, ai sogni di un ragazzo di oggi.
Tenerezze acustiche accompagnate dall'onnipresente fiddle del padre, dalla
steel di Todd Beene (già con i Lucero e di recente nel disco solista di
Ben Nichols), da una spontaneità che rende la produzione immediata, dal
vivo, con un sound d'ambiente che si addice alla materia trattata: che
sia sbilanciata verso i colori vivaci del già citato lascito musicale
hillbilly (Wash my Sins Away, Go
West) e persino bluegras (il finale con Farewell,
direttamente aggrappato ai fantasmi di Bill Monroe), oppure verso un country
pastorale (Singing Man) che si tinge
di una malinconia dolcissima e confessionale (She
Did, Life I've Got) degna
del migliore Bonnie Prince Billy, Austin Lucas ne esce come uno degli
assoluti trionfatori del lessico Americana, nell'anno di grazia 2009.
(Fabio Cerbone)
www.austinlucasmusic.com
www.suburbanhomerecords.com
www.sonic-nl
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