Joshua
James
Build Me This
[Intelligent
Noise 2009]
Joshua James esce dall'angolo: potremmo intitolarlo così il nuovo
percorso artistico inaugurato con Build Me This, un disco
che non rinnega certo la dimensione intima, sussurrata delle sue ballate,
eppure sogna in grande e azzarda spesso e volentieri arrangiamenti magniloquenti,
sferzando con pianoforti e chitarre l'anima folk della sua scrittura.
La faccia è sempre triste, in copertina Joshua si nasconde dietro una
"maschera" e guarda incupito da qualche parte dentro il suo cuore: le
canzoni peraltro riuniscono una galleria di sentimenti a fior di pelle,
dove desiderio di redenzione e senso di sconfitta, amarezza, caducità,
raccontano molto del suo modo di fare musica. Lo spazio dunque è aperto
alle confessioni e viene naturale pensarlo come un altro esponente di
quella progenie di moderni songwriter alle prese con un forte senso di
religiosità, non necessariamente ortodossa 8anche se Joshua vive nello
Utah, dettaglio di non poco conto), comunque specchio di una sensibilità
spirituale, più volte riscontrata in altri colleghi.
D'altronde le immagini di fede abbondano in Build Me This e il tono accorato
prevale ancora una volta: lavorando però con più mezzi espressivi e una
produzione che ha il senso della grandeur, Joshua james ha rischiato
in prima persona, indovinando a volte splendide meraviglie folk, altre
invece perdendosi in una beata confusione che deve ancora dire molto sul
suo futuro prossimo. Intanto si parte dalla spiazzante e felice oasi gospel
rock di Coal War, struggente nei suoi
contrasti con una melodia celestiale, esempio riuscito di ripensamento
del suo stile. Il ruolo ricoperto da pianoforte e organo di Phil Parlapiano
e Peter Bradley Adams, così come dalle saette elettriche di Ben Peeler
alle chitarre, pedal e lap steel, simboleggia tuttavia la vera direzione
di marcia di Build Me this: disco che non rinnega certo i mormorii acustici
del passato in brani quali Weeds e
In the Middle, ma sembra davvero
gettarsi a capofitto oltre l'ostacolo. Ad esempio attraverso il dark country
di Mother Mary e l'acuta lap steel
che caratterizza l'epica Black July.
Il salto non finisce nel vuoto, nonostante la percezione sia che Build
Me this chieda ad un certo punto troppo alla sua immaginazione, così che
dall'enfasi di Kitchen Tile e Daniel
fino alla sezione d'archi lussuosa di Benediction
la voce di Joshua James si perda un poco nel "caos" generale.
Lui forse sta pensando di reinventarsi novello Elton John (Magazine,
la più pop e ammiccante della raccolta), ma a tratti potrebbe finire soltanto
per essere una copia di Conor Oberst (Wilted
Daisies) e questo non fa onore al suo talento: quest'ultimo
abbonda, sia chiaro, e non si nasconde neppure in Build me This (basterebbe
lo scintillare folk rock dai colori irlandesi di Annabelle),
un disco che ha fantasia e idee sopra la media. La prossima volta vorremo
solamente che tutto venisse incanalato su binari con una destinazione
precisa. (Fabio Cerbone)