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The
Whipsaws
60
Watt Avenue
[Shut
Eye records 2008]
L'Alaska come ultima frontiera americana. Un brandello di quel sogno,
in apparenza innarrestabile, dello "spazio ad Ovest" di cui si è nutrito
anche il cosidetto Far North, propaggine di un viaggio in quelle terre
che Christopher McCandless (il personaggio di Into
the Wild di Sean Penn) avrebbe semplicemente chiamato selvagge.
Da quelle latitudini gettano lo sguardo sull'America ferita i Whipsaws,
quartetto di scrupolosi discepoli del verbo alternative country che testimoniano
la loro perseveranza, dichiarando nell'apertura di 60
Watt: "don't tell me where i got to go/ cause i believe
in rock'roll". Ci credono sul serio e ne prendono atto con un disco,
60 Watt Avenue, che alimenta la grande ondata del rock provinciale
senza temere accuse di plagio e confronti insopportabili. È vero, sono
figli della piccola rivoluzione degli Uncle Tupelo, portano il peso di
un lungo tragitto, hanno chitarre gracchianti che insozzano le radici
country con il fumo delle valvole surriscaldate, predendo a prestito qualche
riff dai Crazy Horse (a loro e a Neil Young è dedicato il breve intermezzo
di Ode to Shakey).
Eppure la loro crescita, in termini di songwriting, coesione, vivacità
sonora è palese rispetto al già positivo Ten
Day Bender di due stagioni fa. 60 Watt Avenue è una virata
imbizzarrita ed elettrica, con qualche inevitabile complicazione di romaticismo
roots, che cavalca il genere prendendone a prestito il lascito migliore:
la schiettezza di intenti, il coinvolgimento sincero, il sacro fuoco di
un paio di chitarre al vetriolo ed una sezione ritmica carburata al punto
giusto. Avendo inoltre lavorato in fase di mixaggio con John Agnello
(Son Volt, Hold Steady, Dinosaur Jr.) il loro compito si è enormemente
facilitato, procurando a 60 Watt Avenue quegli indispensabili scossoni
che lo rendono uno dei migliori banchetti roost rock di questi mesi. C'è
ad esempio il cow punk a rotta di collo di Jessi
Jane; quello scalciare intrattabile di Mr.
Soul, classico dei Buffalo Springfield firmato da Neil Young
e qui rimesso a nuovo da una cascata di elettricità impetuosa; il balenare
di qualche luce country rock in High Tide;
una pedal steel che ravviva i toni malinconici della citata 60 Watt; la
filastrocca rurale di 7 Long Years,
a cui partecipa l'ospite Tim Easton (seconda voce e dobro); oppure
il nervoso strepitare di Bar Scar,
la quale è una scusa bella e buona per imbastire un'esagitata festa a
suon di southern rock, lo stesso che vira all'hard rock nel breve strumentale
Sinferno (dedica speciale agli amici
disciolti I Can Lick Any Sonofabitch in the House).
Ci sono soprattutto, come anticipato, le ombre di una nazione in ginocchio,
secondo le regole di un songwriting che molte altre giovani rock'n'roll
band stanno inseguendo (dai Drive by Truckers ai Lucero, giusto per citare
i più affini). Altrimenti non si spiegherebbero i versi di The
War (When you turn 18/ tyou better join the war/ you can
find a good team/ you can settle the score of who's killing who/ and who's
taking lines for democracy for the president's pride), cuore pulsante
del disco in cui si intrecciano le chitarre di Evan Phillips e
Aaron Benolkin. Anima rock che conosce il suo rovescio della medaglia
nel pencolare indolente di Coming Home,
alternative country da manuale con un violino (Beth Chrisman) che rimanda
direttamente ai Whiskeytown, e meglio ancora nell'accopiata banjo-pedal
steel di Lonesome Joe, desolante ritratto
di un soldato che ha visto troppo, al ritorno da una guerra di cui non
ha capito il senso.
Evan Phillips (voce, chitarre e armonica), James Dommeck Junior (batteria,
chitarre, voce), Ivan Molesky (basso) e Aaraon Benolkin (chitarre, lap
steel) non cambieranno forse le sorti di un linguaggio già codificato,
ma alimenteranno le acque di quel fiume con una piccola goccia.
(Fabio Cerbone)
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