|
James
Jackson Toth
Waiting in Vain
[Rykodisc/Audioglobe
2008]
È veramente un enigma questo Waiting in Vain, sorta di esordio
di James Jackson Toth con il nome di battesimo, per molto tempo
nascosto dietro pseudonimi e progetti disorganici che mettevano in evidenza
la sua natura di moderno freak. Un tempo infatti Wooden Wand & the Vanishing
Voice, accorciato al semplice Wooden Wand, comitiva di sperimentazioni
folk a bassa fedeltà e stramberie in dorore di psichedelia, la musica
di Toth si è spesso celata dietro una maschera di provocazioni, ordinaria
amministrazione per un newyorkese cresciuto fra le pulsioni del Village
e la no wave degli anni più fertili del rock indipendente. Tanto è vero
che l'ultimo sforzo in ordine di tempo era stato quel James and the
Quiet prodotto insieme a Lee Ranaldo (Sonic Youth), in cui i segnali
di un naturale, progressivo avvicinamento alla forma canzone si erano
resi manifesti. Waiting in Vain è il "tradimento" definitivo, il salto
verso un rock d'autore che sappia includere forma e sperimentazione, passato
e presente, radici che scavano tanto nel lascito artistico dei sixties
quanto nelle più contemporanee riletteure di quell'eredità.
Non piacerà a chi lo ha sempre visto come una delle possbili avanguardie
del rinascimento indie folk di queste stagioni: eppure, grazie alla produzione
"adulta" di Steve Fisk (nome storico dell'alternative rock) e alle
incursioni delle chitarre di John Dietrich (Deerhoof) e Nels Cline
(Wilco), grazie al basso di Shayde Sartin (Giant Sunflower Band) e alla
batteria di Otto Hauser (Vetiver/Devendra Banhart), grazie soprattutto
ai contrappunti vocali di Carla Bozulich e della compagna Jexie
Lynn Toth, Waiting in Vain si materializza come uno dei dischi più
misteriosi e seducenti di questo 2008. Buona parte del merito ricade sulla
scrittura immaginifica, a tratti impressisonistica altre più severa e
crudele di Toth, una penna di categoria superiore che si strugge fra il
romanticismo di Doreen e le confessioni
malate e maledette di Look in On Me,
aprendo gli argini nella torrenziale, dylaniana Beulah
The Good. Quello che resta, e non è certo un dettaglio, riporta
tutto ad una fisionomia folk rock che riesce a suonare tradizionale senza
scadere nella calligrafia: The Banquet Six
sfiora ruvide spirali psichedeliche con la chitarra marziale di Nels Cline,
Becoming Faust e The
Park si agitano nervose con un'animosità punk, mentre Poison
Oak e Midnight Watchman ribaltano
ogni previsione addolcendosi dentro un profilo di ballata trasognata e
morbida, che staziona a metà strada fra quello che fu la West Coast (si
veda anche la dolcissima Do what You can)
e le intuizioni dei Wilco, ai quali, a più riprese, Waiting in Vain non
può fare a meno di accostarsi (Nothing Hides).
Avrebbe voluto intitolarlo Becoming Faust - e sarebbe stato assolutamente
appropriato, non c'è che dire - è diventato invece Waiting in Vain,
un disco che a detta dello stesso James Jackson Toth riguarda "il rapporto
fra tentazione e redenzione e le diverse prospettive con cui le puoi osservare".
C'era da aspettarselo, visto il palese accostamento alla mitologia di
Robert Johnson, nonostante il blues come linguaggio codificato della tradizione
americana sia soltanto un pretesto di fondo, una lontana eco che si stempera
nello stile personalissimo di questo storyteller dall'animo inquieto,
scuro, enigmatico.
(Fabio Cerbone)
www.myspace.com/jamesjacksontoth
www.woodenwand.net
|