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Darrell
Scott
Modern Hymns
[Appleseed
2008]
Da queste parti l'aggettivo "professionale" non ha mai avuto un senso
sempre positivo: sa di poco sincero, di costruito, di freddo; insomma
la professionalità non è filosoficamente "rock and roll". Poi ci capita
per le mani un disco come questo Modern Hymns di Darrell
Scott, ed eccoci subito servita l'eccezione alla regola. Scott è da
almeno quindici anni una delle penne più abusate di Nashville, probabilmente
il miglior erede di Rodney Crowell in termini di attitudine a sfornare
hit per ugole altrui (le sue canzoni hanno venduto milioni di dischi grazie
a Garth Brooks e alle Dixie Chicks). E' anche uno che si è guadagnato
stima sul campo come chitarrista, magari con poco acume selettivo nelle
collaborazioni (lo si è visto troppo spesso nelle sessions della peggio-Nahsville),
ma lasciando comunque tracce importanti, come il lavoro svolto in molti
dischi di Guy Clark da Dublin Blues in poi.
In tutto questo la sua produzione personale (questo è il quinto album
in studio) è sempre passata in secondo piano, anche se i primi due dischi
(Aloha From Nashville del 1997 e Family Tree del 1999) potrebbero darvi
qualche soddisfazione. Per cui immaginate voi le poche aspettative che
si possono avere per un disco di un rigido professionista alle prese con
un album di cover, e oltretutto rilette spesso in chiave country-gospel,
vale a dire il terreno dove è forse possibile incappare nella musica più
deleteria di tutti gli Stati Uniti. Invece, colpo di scena: questi inni
moderni sono dodici perle, divinamente suonate in veste acustica multistrato
(almeno 4 o 5 strumenti sempre sovrapposti, tra chitarre, banjo e mandolini
di altri professionisti come Danny Flowers, Tim O'Brien
o Dirk Powell), e realizzate mixando perizia da tecnici e grande pathos
d'artisti.
Colpiscono soprattutto alcuni arrangiamenti, perché riescono spesso a
regalare qualcosa in più agli originali, come una
American Tune di Paul Simon che chiunque altro avrebbe potuto
rendere una retorica patacca da predicatore televisivo, mentre Scott pensa
addirittura a de-armonizzare, non concedendo nulla al facile impatto melodico.
Che dire poi di come stravolge e regala nuova veste a classici come All
The Loving Ladies di Gordon Lightfoot, Jesus
Was A Capricorn di Kris Kristofferson, That
Old Time Feeling di Guy Clark, la tesa The
Devil di Hoyt Axton e altri brani di John Hartford, Adam Mitchell
e Mickey Newbury. Urge For Going di
Joni Mitchell qui è diventata una perfetta bluegrass-song, e se l'immancabile
Bob Dylan se ne sta in disparte con una non trascendentale I
Don't Believe You, i sette minuti della
Joan Of Arc di Leonard Cohen, recital a tre voci con Mary
Gauthier e Alison Krauss, rappresentano l'highlight emotivo
del disco. L'amore per il jazz si sfoga poi nello strumentale James,
brano del duo Pat Metheny/Lyle Mays che vede un divertito Danny Thompson
al basso.
Onore dunque a Darrell Scott per aver reso conturbante un disco che rischiava
di essere solo la solita inutile passerella di canzoni e autori Vip.
(Nicola Gervasini)
www.darrellscott.com
www.appleseedmusic.com
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