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John
Mellencamp
Life Death Love and Freedom
[Hear
Music
2008]
Nessuno sconto, nemmeno per se stessi: lo scorrere inesorabile del tempo,
il senso di caducità della vita di un artista che ha ottenuto tutto o quasi,
infine lo spettro della morte, sbattuto in faccia senza remore. Un incastro di
ombre certo, ma anche di speranze, questo Life Death Love and Freedom,
che non a caso decide di includere le ultime due parole: c'è sempre una
luce in fondo alla strada, A Brend New Song
da intonare per la tua famiglia, i tuoi desideri, la tua stessa nazione; c'è
sempre una My Sweet Love (delizioso singolo
in tono vogliosamente fifties) da inseguire, nonostante le incomprensioni, le
parole non dette, i capricci del momento. John Mellencamp manda all'aria
il "populismo" rock del recente passato, l'Our Country che gli aveva
permesso, con una astuta mossa commerciale, di riportarsi ai piani alti delle
charts americane con il precedente Freedom
Road, per abbracciare il disco più scuro, denso, "d'autore"
della sua carriera. Non è nuovo a queste sortite John Mellencamp,
e lo dovrebbero sapere bene i suoi affezionati sostenitori: tra l'intimismo familiare
di Big Daddy, un disco mai troppo compreso, e la ricerca dei fantasmi del folklore
americano attuata in Rough Harvest e soprattutto in Trouble no More, la declinazione
asciutta, spettrale, prevalentemente acustica di Life Death Love and Freedom non
dovrebbe sorprendere più del dovuto. Anche se, con la produzione ovattata
di T Bone Burnett, il minimalismo blues che avvolge molti di questi episodi,
il disco si svela come il più intransigente della sua carriera, dimostrando
finalmente che il rocker orgogliosamente blue collar nasconde da sempre
una coscienza da folksinger degna erede di Woody Guthrie, di Bob Dylan, di Robert
Johnson. Dalla confessione disarmante di Longest Days
(Seems like once upon a time ago/ I was where I was supposed to
be...But nothing lasts forever), l'artista John Mellencamp apre l'anima alle
verità scomode del suo passato, ricordandosi di quello che è stato
e non sarà più, perfino esorcizzando con cruda schiettezza la morte
nel blues torbido di If I Die Sudden.
La musica è vibrante nonostante la sua forma ossuta: le chitarre di
Andy York e quelle dello stesso T Bone Burnett sono una eco che riverbera
sul fondo di una antica vallata, la voce di John al centro dell'attenzione, per
non perdere un solo momento il senso delle parole declamate. Folk music si diceva:
nella selva di quella ancestrale visione, un po' apocalittica, appartenuta alla
migliore tradizione degli Appalachi, tra una livida Young
Without Lovers, una "fastidiosa" dichiarazione di intenti
quale Don’t Need This Body ed infine una paludosa,
sporca e bluesy John Cockers. Non solo introspezione
e caratteri personali tuttavia, ma riflessi che ricadono come scintille sull'America
intera, mai mancando di far sentire la propria voce sui mali di queste martoriate
stagioni politiche: con meno foga però, una consistenza quasi poetica che
per John Mellencamp è una dimostrazione di grandissima maturità
nel songwriting: qui nascono Without A Shot,
nera come la pece, le paure minacciose di The County
Fair e soprattutto la preghiera di Troubled
Land, capolavoro di sintesi del disco che si affianca alla predica
sudista di Jena, ispirata dalle odiose recrudescenze
razziste svoltesi nella cittadina americana lo scorso anno. Fra la spessa
coltre di perdita e morte l'appiglio di un ritorno a casa (A
Ride Back Home, con la seconda voce femminile di Janas Hoyt)
e la fiducia nelle cose più care (For The Children),
mantenendo la bussola di una musica mai accondiscendente con il proprio mito,
anzi scomoda e bruciante come un pugno nello stomaco. Life Death Love and
Freedom è un piccolo miracolo artistico, il migliore raccolto che
Mellencamp abbia saputo portare a casa in tempoi recenti (Fabio Cerbone) www.mellencamp.com
www.hearmusic.com |